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L' “emergenza umanitaria”: una costruzione?

Il caso della Libia, gli “interventisti globali”, la guerra, di Damiano De Facci, 14 marzo 2011

Le vicende odierne rimandano la memoria a più antiche tragedie. I complessi intrecci di


responsabilità, di convergenza e di casualità generano molteplici percezioni delle realtà che viviamo
e, molto spesso, si finisce per personalizzare i conflitti e cadere nei meccanismi della fiducia
illimitata e dei sospetti – o addirittura delle certezze di colpevolezza – infiniti. Sotto questo aspetto,
diventano per noi interessanti le analisi di Carlo Ginzburg sulla vicenda delle persecuzioni di
lebbrosi, ebrei e musulmani nella Francia del '300.

<< Segregazione dei lebbrosi e cacciata degli ebrei, avevano chiesto i siniscalchi di
Carcassonne e delle città circostanti nel messaggio inviato a Filippo V tra la fine del 1320 e
il principio del 1321. Poco più di due anni dopo entrambi i risultati erano stati raggiunti,
grazie all'intervento del re, del papa, di Filippo di Valois (futuro re di Francia), di Jacques
Fournier (futuro pontefice), di Jean Larchevêque signore di Parthenay, di inquisitori, giudici,
notai, autorità politiche locali – e naturalmente delle folle anonime che massacravano
lebbrosi e ebrei, “senza aspettare”, come scriveva il cronista, “né prevosto né balivo”.
Ognuno aveva fatto la propria parte: chi aveva fabbricato le prove false del complotto e chi
le aveva diffuse; chi aveva aizzato e chi era stato aizzato; chi aveva giudicato, chi aveva
torturato, chi aveva ucciso (secondo i rituali previsti dalla legge o al di fuori di essi). […]
Parlando di complotto non si vuole semplificare indebitamente un intreccio causale
complesso. Può darsi benissimo che le prime accuse siano nate spontaneamente, dal basso.
Ma da un lato, la rapidità con cui la repressione si diffuse, in un'età dove le notizie
viaggiavano a piedi, a dorso di mulo, tutt'al più a cavallo; dall'altro la ramificazione
geografica dal presumibile epicentro Carcassonne, rivelano l'intervento di azioni deliberate e
coordinate, volte a orientare in una direzione predeterminata una serie di tensioni in atto.
Complotto significa questo, e soltanto questo. Supporre l'esistenza di un'unica centrale
coordinatrice, composta da una o più persone, sarebbe evidentemente assurdo, e comunque
smentito dall'emergere tardivo e contrastato dell'accusa contro gli ebrei. Altrettanto assurdo
sarebbe supporre che tutti gli attori della vicenda (escluse le vittime) agissero in malafede. In
realtà la malafede è in questo contesto, irrilevante – oltre che inverificabile. L'uso della
tortura nei processi per strappare una versione già confezionata, o la fabbricazione di falsi
per scopi pii o meno pii sono (allora come oggi) operazioni che è possibile compiere anche
in perfetta buona fede, nella convinzione di certificare una verità di cui malauguratamente
mancano le prove. […]
Descrivere tutta la vicenda come un'oscura convulsione della mentalità collettiva che
travolse tutti gli strati della società, è una mistificazione. Dietro l'apparente unanimità dei
comportamenti s'intravede un campo di forze, di diversa intensità, ora convergenti ora in
conflitto. […]
Qui per la prima volta le tremende potenzialità di purificazione sociale racchiuse nello
schema del complotto (ogni complotto fantasmatico tende a generarne uno reale di segno
contrario) si dispiegarono pienamente. >> (C. Ginzburg, Storia notturna, parte prima)

Ciò a cui alludo servendomi della lunga citazione di Ginzburg non è la realtà attuale della situazione
libica. Non è la guerra civile che oppone il colonnello Gheddafi ai ribelli; e prescinde dal giudizio
che si può avere sugli ultimi avvenimenti nel mondo arabo – avvenimenti probabilmente
radicalmente differenti per cause, intrecci strategici e finalità. Si tratta invece di una realtà a noi più
vicina, l' “emergenza umanitaria” della Libia, una realtà diversa dalla situazione libica – anche se
non per questo “meno” reale; una realtà fatta di rappresentazioni e discorsi, di richiami all'
“urgenza”, i cui contatti con la situazione libica possono avere degli effetti decisivi sulla situazione
stessa e la cui analisi potrebbe aiutarci a cogliere elementi importanti di tale situazione e del nostro
sguardo sul “mondo”. La rappresentazione dell' “emergenza umanitaria” è una realtà che ha degli
spazi di formazione e dei luoghi di costruzione, secondo intenzioni e strategie eterogenee e
potenzialmente contraddittorie. Premetto che dal mio punto di vista il problema non è che si
abbiano delle – inevitabilmente parziali – rappresentazioni della realtà, ma la non comprensione dei
“meccanismi” che tali rappresentazioni possono andare ad innescare; la volontà di non vedere le
possibilità e le prospettive insite in una certa maniera di descrivere la realtà (descriviamo
utilizzando quali categorie? quali criteri? quali scale di misura?) e di rapportarsi a questa
descrizione (descriviamo per chi? per che finalità? con quale pretesa di validità?)
Procederò cercando di abbozzare uno schema per un'analisi che mi sembra cruciale nei giorni che
stiamo vivendo, tanto più nel momento in cui la NATO comincia a “studiare” l'opzione militare.
Non vorrei che tra qualche tempo si ricominciasse a ripetere il ritornello della “guerra per il
petrolio” e dei potenti che “sono tutti uguali”; magari dopo aver creduto alla buona fede di “potenti
democratici”: oggi, come nel '91 in Iraq e nel '99 in Jugoslavia, la “società civile internazionale” è
parte essenziale delle strategie che potrebbero portare ad una guerra. E anche quella italiana appare
arruolata, come già nel 1911.
Partiamo quindi da un dato di fatto: la possibile guerra contro la Libia si configura in questo
momento principalmente come reale guerra “mediatica” e “lobbistica”, poiché pare che nessuno
abbia la voglia né le forze morali e materiali di effettuare delle operazioni sul campo. Si tratta
innanzitutto di una guerra mediatica nel senso che i giornali, le televisioni e la rete hanno un ruolo
primario nel lanciare l' “emergenza umanitaria”, imporre lo “stato di crisi”, diffondere la percezione
del pericolo (a tratti della certezza) di un eccidio (“crimini contro l'umanità”) e insinuare l'idea,
proporre, reclamare un intervento “umanitario” (armato). Si tratta poi di una guerra lobbistica nel
senso molto semplice per cui a fianco, a sostegno e tramite quei media, “dietro” le dichiarazioni
variabili e incoerenti di responsabili politici – e oltre le convinzioni personali di chi si espone – vi
stanno diversi “gruppi di pressione” che tentano di direzionare rappresentazioni, propensioni e
intenzioni secondo le loro stesse percezioni e finalità. La direzione che tentano di dare alle
rappresentazioni, così come gli “interessi” – a livelli e su scale diversi – e la natura stessa di tali
gruppi sono certamente eterogenei l'uno dall'altro: dalle associazioni umanitarie alle organizzazioni
non governative, dai gruppi editoriali fino alle grandi imprese con interessi nell'area; passando,
ovviamente, per gruppi politici e servizi segreti. Piuttosto che con le decisioni unilaterali di governi,
si ha a che fare con un intreccio di sensibilità e interessi sostanzialmente diversi e contraddittori,
che potrebbero tuttavia trovare punti di convergenza e andare incontro ad effetti paradossali; e
motivazioni diverse potrebbero avere lo stesso risultato (secondo il motto interventista: “dobbiamo
pur fare qualcosa”).
La guerra, in effetti, non è un affare di pura ideologia, che si intenda quest'ultima in termini di
“rappresentazione o dottrina che accieca” oppure nel senso di “copertura di interessi economici”.
Siamo qui al “grado zero” della democrazia e dei diritti umani: là cioè dove si formano non dei
semplici ideali, ma dei concetti operativi che agiscono sulla realtà. Democrazia e diritti umani –
come le loro violazioni – sono rappresentazioni di movimenti storici, concetti che accompagnano,
direzionano, corroborano e rafforzano determinati eventi e cambiamenti sociali, nonostante tendano
a diventare descrizioni normative a cui tutta la realtà deve conformarsi. Tali rappresentazioni
nascono e crescono con i diversi segmenti e strati di società nei quali fungono da concetti operativi
e performativi per le strategie messe in atto. Il discorso umanitario sorge da tutta una serie di
sensibilità e pressioni provenienti “dal basso” e direzionate da centri in grado di trasformare
preoccupazioni diffuse in problemi urgenti e proposte di intervento.
Tale discorso è un meccanismo potenzialmente incontrollabile, poiché unisce l'urgenza temporale e
il pericolo estremo: in maniera funzionale e senza bisogno di prove, emerge e si impone una
rappresentazione della realtà che rimpiazza la complessità della situazione con gli ideali umanitari e
l'attitudine strategica con l'attivismo dello spirito. È qua che le diverse motivazioni e le pratiche
strategiche non riconoscono più loro stesse come tali e non producono più delle rappresentazioni
autonome, assorbite in un'impresa da loro stesse creata ma che difficilmente sarà in loro potere. La
percezione dell'imminenza del pericolo (l' “emergenza”) facilita il distacco degli “ideali” dalle
molteplici strategie in gioco che li formano e li costituiscono sostanzialmente: emerge così
l'impressione della “potenza dell'ideale”, che resiste agli eventi e che – come se si considerasse il
suo essere “pensiero” senza una massa né un peso – sembra poter essere “spostato” senza alcuna
difficoltà in ogni situazione ed essere “innalzato” a finalità suprema. Si dimentica dunque la sua
funzione storica, la sua unione strategica con le forze “materiali” e “morali” che interagiscono in
una determinata situazione storica. Tuttavia, il tempo della politica (e della guerra) che, avendo a
che fare con relazioni sociali e flussi di risorse, è inevitabilmente più lungo di quello della morale di
emergenza, demistifica questo utilizzo dell' “ideale”: la gestione della doppia temporalità, lo
scandirsi di momenti di pressione e momenti di stallo, sono espressione di “azioni deliberate e
coordinate, volte a orientare in una direzione predeterminata una serie di tensioni in atto”.
Questa separazione tra “ideali” e strategie in gioco fraintende la realtà politica mistificando la
particolarità delle forze sociali, perdendo la possibilità di capire la “trama” delle diverse strategie, la
quale però si mostra prepotentemente nella doppia temporalità, nei tentennamenti e nelle
contraddizioni – le quali non sono espressione del prevalere del calcolo sulla moralità, ma
dell'affermazione stessa di una moralità ideale dominante. L' “ideale”, in questo senso, è una
rappresentazione che non si prende come tale e che diventa uno strumento di guerra ancora più
forte.
<< In una prospettiva realistica non è rilevante valutare la sincerità delle convinzioni
ideologiche di singoli decisori politici o militari, che può essere tranquillamente accordata. Il
problema è un altro: cogliere la funzione persuasiva che una motivazione etica della guerra
può svolgere nell'ambito stesso del conflitto. Ebbene, da questo punto di vista la
qualificazione della guerra come “intervento umanitario” è un tipico strumento di
autolegittimazione della guerra da parte di chi la sta conducendo. Come tale è parte della
guerra stessa: è, in senso stretto, uno strumento di strategia militare diretto ad ottenere la
vittoria sul nemico. >> (D. Zolo, Chi dice umanità, secondo capitolo)

“Società civile globale”. Il “soggetto sociale” per eccellenza dell'idealismo umanitario è composto
da una serie di attori interessati e preoccupati da qualsiasi “campo” geografico e sociale – sebbene,
molto spesso, non ne abbiano alcuna conoscenza diretta. Non volendo cadere nel fare una caricatura
di tale “soggetto”, mi limiterò a qualche breve osservazione. Si parla da più di vent'anni di una
“società civile internazionale”, intendendo con quest'espressione un superamento delle politiche
“nazionali” degli stati e dei governi: si allude a due movimenti, da un alto la contrapposizione di
stato e società civile, espressione di una presunta “democratizzazione” e affermazione dei liberi
individui e dall'altro lato un oltrepassamento dei ristretti interessi nazionali verso le preoccupazioni
della società mondiale. Ci si dimentica così del movimento più importante, cioè la moltiplicazione
di concorrenze e conflitti sempre più complessi tra attori e “segmenti di società” portatori delle più
diverse strategie; in questi conflitti rientrano di fatto i rapporti di forza internazionali. Nella “società
civile globale”, nelle sue pratiche e nelle sue rappresentazioni, non v'è alcun tipo di superamento
degli interessi strategici verso l'affermazione di preoccupazioni e ideali universali – e tale
superamento sarebbe in ogni caso privo di senso – poiché invece in essa si affermano “soggetti
sociali” in lotta fra loro, che con gli “individui” intrattengono ambigui rapporti di cooptazione-
appropriazione. Non si tratta dunque di una società omogenea di individui o organizzazioni, ma del
(ri)sorgere dei rapporti di forza su scale diverse.
Parlando delle rivolte arabe e di come esse sono state accolte dall' “opinione pubblica”, David Rieff
(Internazionale, numero 885, 18 febbraio 2011) descrive questa “società civile internazionale”
(leggi: europea e americana) attraverso le categorie di “ciberutopismo” e di “tifosi”. Accecati dal
ruolo svolto dai social network in tali situazioni – sopravvalutato rispetto alle reali condizioni
economiche e sociali – e dalla mentalità del tifoso che deve vivere gli avvenimenti nei quali non è
coinvolto scegliendo una parte con cui stare e sostituendo il ragionamento con la “febbre”
dell'appartenenza. Questi atteggiamenti non permettono la percezione della distanza dell'evento e
della differenza della situazione, né una valutazione adeguata delle reali relazioni e strategie in
campo – e, quindi, delle reali prospettive e possibilità politiche.
Nel caso della Libia, è proprio di questi atteggiamenti che si nutre la percezione dell'urgenza; così la
“guerra umanitaria” è un meccanismo che vive di diversi contributi, di cui il discorso dell'
“emergenza umanitaria” ne è la componente principale: il sentimento dell'indignazione mediatica
diffusa è parte integrante della guerra. Soprattutto, l'indignazione è il sentimento più irresponsabile
davanti all'affluire di una massa informe di informazioni inverificabili e il suo effetto principale non
è altro che quello di “soffiare sul fuoco”; un fuoco che, comunque, non brucerà certo gli “indignati”
ma qualcun altro...

Informazione e conoscenza. Nell'oceano di informazioni, confuse e contraddittorie, che ci arrivano


tramite tutti i media a disposizione, ciò che più conta non è strettamente il contenuto, ma l' “idea”
che ci costruiamo e che ci permette la selezione, la critica e l'interpretazione delle informazioni
stesse – in un processo nel quale anche le informazioni non-credibili contano nella ricostruzione di
quegli attori fondamentali in ogni evento che sono i media e le fonti di informazioni. Non si tratta di
lamentarsi per la “disinformazione di massa” o per la “mancanza di trasparenza”, ma di mettere al
centro dell'attenzione le procedure cognitive.
Nel contesto di un'interpretazione delle rivolte arabe secondo il “modello delle rivoluzioni colorate”
– un paradigma credibile ma che dovrebbe essere ampiamente riformulato – Marcello Foa (il
Giornale, 24 febbraio 2011) mette in luce il meccanismo di costruzione di una piattaforma di verità
sulla base della quale tutte le notizie vengono interpretate. Vengono fabbricate delle storie le quali
diventano la cornice (frame) che funge da principio di selezione e interpretazione per i giornalisti
stessi: le “informazioni” che arrivano sui media sono già l'elaborazione di segnali tramite le “storie”
raccontate da centri strategici interessati (su questo meccanismo dello storytelling si può guardare
l'ironico film “Sesso e potere”, con Robert De Niro nelle vesti di uno “speciale” spin doctor
incaricato di fabbricare delle storie singolarmente simili a quelle proposte nel '99 e oggi). In tale
meccanismo, ogni notizia conferma la storia dominante mentre le notizie discordanti non vengono
recepite.
Secondo alcune “teorie dell'informazione”1, abbiamo qui a che fare con un processo a tre stadi: i
“segnali”, provenienti da più parti, vengono trasformati in “informazioni” a partire da determinate
strutture di “conoscenza” o di credenza. Questi tre stadi sono discontinui e non automatici e ciò
significa che possiamo avere segnali contrari alle aspettative o proprio inaspettati e non saper
interpretarli, poiché la struttura della conoscenza si rivela inadeguata. La struttura della conoscenza
dovrebbe allora essere cambiata, ma nel momento in cui cominciano a passare segnali come
informazioni, secondo l'uso del “tempo reale” e della pubblicizzazione indiscriminata, si raggiunge
presto un punto di saturazione dato dall'incapacità di controllo e di rielaborazione. Poiché la
capacità di elaborazione cognitiva umana è limitata e legata alle condizioni temporali dell'utilizzo
dell'interpretazione e della decisione – non potendo queste essere ritardate in maniera indefinita –, si
possono avere delle informazioni attendibili soltanto se i segnali sono limitati. Da queste
osservazioni possiamo trarre tre conseguenze: innanzitutto, la necessaria limitazione delle
informazioni limita a sua volta la possibilità di programmazione e di azione automatica – cioè le
“tattiche” e le “tecniche” che si utilizzano in condizioni di stabilità conoscitiva –, affidando la
decisione e l'azione a regole procedurali e alla capacità strategica. In secondo luogo, un ruolo
importante è svolto dalla struttura della conoscenza, che si costruisce con l'apprendimento e la
ricerca, ma che non deve essere confusa – come sistematicamente avviene trattando questioni di
attualità – con l'informazione. Infine, sono vani gli “appelli alla trasparenza”, se per trasparenza si
intende un “di più” di informazione, poiché l'arrivo indiscriminato di informazioni mediatiche rende
il campo sempre più opaco: come nel caso-Wikileaks, l'opacità determinata dall'afflusso
incontrollato di informazioni è ciò che si presta ad operazioni strategiche di qualunque tipo,
appoggiate più su forze persuasive che su dati di fatto.
Nel caso della Libia, l'imposta “necessità di agire rapidamente” si scontra con la possibilità di avere
1 Si vedano, per esempio, le teorie di George Shackle, Herbert Simon e Jacques Sapir.
delle informazioni attendibili per il tipo di “azione rapida sul campo” che si vuol fare o appoggiare;
e un'azione come l'intervento militare potrebbe avere degli effetti troppo devastanti in rapporto
all'attendibilità della rappresentazione dell' “emergenza umanitaria”. Non si tratta dell'impossibilità
di una valutazione attendibile – ovvero dell'impossibilità di una ricostruzione provata dei fatti – ma
della non attendibilità delle informazioni oggi diffuse, se giudicate sulla base dei processi storici
più o meno recenti e sulle “contraddizioni strategiche” presenti. Accettare la rappresentazione dell'
“emergenza umanitaria”, senza filtrare le componenti di tale rappresentazione in base a “idee” e
“procedure di analisi” esplicite, che possano comprendere i rapporti di forza e gli intrecci strategici,
significa contribuire al suo rafforzamento togliendosi ogni possibilità di capire quali siano le reali
prospettive dell'azione. Appoggiarsi sulla rappresentazione dell' “emergenza umanitaria”, senza
riflettere sulle “idee” e sui “processi” con le quali si è formata, significa incrementare un “rumore di
fondo”, di grida ed informazioni incontrollate, che non permette di vedere i centri strategici che
tentano di direzionare questa rappresentazione. Utilizzare la rappresentazione dell' “emergenza
umanitaria” come base di un'azione, senza misurare la portata di tale azione sull'attendibilità
dell'informazione e della conoscenza, significa non riconoscere l'inadeguatezza o l'avventatezza di
determinate strategie e “scommettere” fideisticamente che un' “azione umanitaria” sia la soluzione
dell' “emergenza” e non il principio di un problema più grande e non facilmente controllabile.
Nel nostro rapporto all'informazione, dunque, più che la fiducia nell'esattezza e nella fondatezza dei
discorsi, conta il controllo, il filtro e l'interpretazione razionale delle comunicazioni, in un contesto
di generale differenziazione delle “fonti cognitive”: conta l' “utilizzo” delle informazioni, nel
determinato ambiente nel quale prendono senso, come “idee” e “strutture conoscitive” che
permettono di interpretare l'ambiente stesso e come strategie d'azione.

Guerra e memoria. Anche il presente articolo, in piccolo, va ad inserirsi nella “situazione strategica”
nella quale stiamo vivendo: le sue categorie e i suoi criteri hanno una loro storia e sono ancorati
nella memoria delle guerre degli ultimi vent'anni. In particolare, il precedente, di cui il caso della
Libia pare una replica, è rappresentato dall'intervento militare della NATO contro la Repubblica
Federale della Jugoslavia nel '99, la guerra per il Kosovo. Risultano, dunque, oggi molto importanti
le analisi di Danilo Zolo, che ha speso gli ultimi due decenni a studiare e a scrivere su questioni di
guerra, diritto e ordine globale (si veda questo articolo-sintesi sulla questione del Kosovo:
“L'intervento umanitario armato fra etica e diritto internazionale”).
È possibile documentare (si veda proprio l'articolo di Zolo) come nel caso del Kosovo l' “emergenza
umanitaria” sia stata “montata” e “gonfiata”, che il “genocidio” sia stato “costruito” e che gli
eventi-simbolo presi a pretesto per l'intervento siano per lo meno “controversi”. Nel caso della Libia
abbiamo a che fare con bombardamenti sui civili che fonti militari russe hanno smentito e fonti
militari statunitensi non hanno potuto confermare. Piero Pagliani (Megachip, 7 marzo 2011) ha
potuto quindi mettere in evidenza che le strategie mediatiche e politiche utilizzate per parlare di
Gheddafi (“il sanguinario dittatore”) e della crisi libica (“stragi nella folla”, “fosse comuni”)
ricalcano per filo e per segno le “costruzioni del nemico” che hanno portato in passato a interventi
armati e a rivolgimenti politici autoritari. Grazie al meccanismo dell' “emergenza umanitaria”, è la
“società civile” tutta ad essere arruolata.
Si potrebbe dunque formulare questa ipotesi: mentre la “guerra al terrorismo” (Afghanistan '01, Iraq
'03) è la “guerra monoteista” per eccellenza (“eccezionalismo messianico”), persino nella sua
conduzione (“unilateralismo”) e nelle sue fallimentari strategie (“guerra totale”, “nemico
ideologico” da debellare), la “guerra umanitaria” (Iraq '91, Jugoslavia '99) è una guerra pragmatica
svolta in nome di ideali universali. Si tratterebbe, per quanto riguarda la “guerra umanitaria” di un
funzionamento a doppio binario: il fondamentalismo si esprime nella rappresentazione dell'
“emergenza umanitaria” e nella “disumanizzazione del nemico”, laddove la pluralità di attori e di
strategie sul campo fanno di tale crociata un conflitto dove tutti trovano il loro spazio, in un
processo pragmatico che tende ad inglobare persino i contrari alla guerra, irretiti nella
rappresentazione emergenziale – e grazie alla contiguità tra missioni umanitarie e missioni militari.
Purtroppo nell'Europa contemporanea è molto difficile capire la logica politica e strategica della
guerra: dimenticato Machiavelli, tutto viene compreso secondo contrapposizioni ideologiche, nei
due sensi più semplici del termine “ideologia”. Da un lato, l'ideologia è una forma (di vita e) di
pensiero e le uniche contrapposizioni significative sono allora libertà contro dispotismo e
democrazia contro totalitarismo: in una guerra, abbiamo sempre il “cattivo” che vuole imporre il
suo dominio e la sua dottrina oppressiva contro i sostenitori della libertà. La Libia, stato non
democratico, preda di un “dittatore pazzo e sanguinario”, non è altro che un modello negativo, da
cancellare. Dall'altro lato, l'ideologia non è altro che la copertura di interessi (in particolare
economici) e quindi non esiste alcuna differenza tra i contendenti. Il problema sta nel non riuscire
più a capire la “diversità” se non nella forma del “migliore” o “peggiore”. Il “diverso” dall'
“Occidente democratico” non è altro che il non-democratico contro il quale combattere, in ogni
tempo e in ogni spazio – poiché le lotte, in un mondo che “dovrebbe essere democratico” e che
dunque è omogeneo, sono tutte uguali. Si tratta della stessa logica della “personalizzazione” della
responsabilità, in cui tutto diventa (e tutto procede per) scandalo morale. Rimanendo all'interno di
questa logica, pare impossibile evitare di cadere nella rappresentazione dell' “emergenza
umanitaria”.
Se tutto procedesse per semplici contrapposizioni ideologiche, sarebbe ben difficile capire sia la
politica – che infatti viene appiattita sulla morale – sia la guerra – che viene compresa soltanto sotto
la forma della guerra “giusta” o “ingiusta”. Non si capirebbe il “mistero” per il quale una situazione
diventa obiettivo e campo di guerra piuttosto di un'altra simile 2, ricadendo quindi nelle due logiche
precedenti: la prima trasforma la guerra in un “intervento umanitario”, mentre la seconda scova
l'interesse (economico) di fondo come “causa” della guerra – laddove un qualche interesse si può
trovare “dietro” qualsiasi azione di qualsiasi governo o esercito. Nessuna delle due logiche sembra
però prendere in considerazione che la guerra è una “macchina” più complessa della decisione di
qualche governo o degli interessi di qualche gruppo di potere e ha le sue basi nei diversi “spazi”
geografici e sociali, dove ogni strategia non può essere l'espressione di un'idea imposta né di una
formattazione mentale secondo una “logica dominante”. L' “evento” della guerra ha un complesso
intreccio causale, nel quale vi sono certo interessi (geo)politici: tuttavia, non funziona grazie ad una
strumentalizzazione dell' “opinione pubblica” al fine di interessi (geo)politici ma ad una
partecipazione dell' “opinione pubblica”, al di là delle fratture sociali, ad una strategia di potenza,
di cui la rappresentazione dell' “emergenza umanitaria” è espressione.

Scale di misura. “Mai come oggi la posizione geopolitica dell’Italia ci conferisce un potenziale
ruolo fondamentale nella crisi libica. Possiamo di fatto impedire qualunque attacco (a meno di
singoli raid) contro la Libia oppure essere decisivi per spingere gli incerti Usa e Gran Bretagna” (da
Limes on-line, 7 marzo 2011). Tuttavia, le diverse parti politiche italiane sembrano non avere né
forza né volontà di prendere decisioni e iniziative autonome. Ciò a cui si assiste, al di là della rissa
quotidiana nella quale qualsiasi fattore è utilizzato per accusare la fazione avversa, è la tendenza a
seguire la strategia di potenza “occidentale”, auto-alimentantesi grazie all'attivismo di ogni tipo:
l'imporsi della rappresentazione dell' “emergenza umanitaria” invece di ragionate riflessioni
politiche sta lì a dimostrarlo. Oltre che per il fattore “logistico” delle basi militari, però, l'Italia può
essere decisiva per altri fattori storici e geografici: e può essere decisiva per cominciare a pensare le
relazioni politiche in maniera diversa. Si tratta, per noi, di ricominciare dal Mediterraneo.
Vi è, in effetti, un impensato nella nostra maniera abituale di considerare la politica: il rapporto tra
pensiero e spazio. Si tratta del problema molto semplice per il quale la maniera in cui pensiamo un
oggetto o un'azione deve essere commisurata alle sue “dimensioni spaziali” e alla “distanza” da chi
ne parla e del problema un po' più complesso del rapporto tra la “parola” e gli spazi nei quali è

2 Per questo problema è da vagliare l'ipotesi di Emmanuel Todd (Dopo l'impero), il quale interpreta le guerre
“occidentali”degli ultimi quarant'anni secondo una “logica simbolica”: delle guerre facili condotte contro nemici
insignificanti, con l'unico scopo di riaffermare l'iper-potenza “occidentale” e statunitense in particolare. Nessun vero
interesse, dunque, ma una sorta di “produzione” simbolica della guerra in un contesto di potenza in discussione.
prodotta, inserita e utilizzata. Una realtà sociale non è la stessa a seconda della scala di osservazione
nella quale si decide di situarsi; un'azione non ha gli stessi effetti a seconda della scala di
osservazione nella quale si è deciso di inquadrarla. Le relazioni mediterranee sono storicamente
caratterizzate da un particolare rapporto allo spazio, la “connettività”3, cioè la possibilità a partire da
un punto del Mediterraneo di accedere a qualsiasi altro punto delle sue sponde tramite piccoli viaggi
ripetuti in barca o per via terrestre. Questo modello di creazione dello spazio, che ha permesso al
bacino mediterraneo di essere uno spazio “relativamente coerente”, si contrappone al modello, in
gran parte utopico, di uno spazio determinato dalla “rapida” possibilità di “intervento” (umanitario e
armato) in tutto il mondo.
Siamo abituati, in effetti, a vivere in una dimensione utopica delle relazioni transnazionali, per la
quale esisterebbe un grande “spazio globale (quasi) omogeneo” almeno nella sua “grammatica” e
nelle sue logiche di fondo. Tuttavia, il trasporto aereo e la rete – i simboli della più volte
diagnosticata “deterritorializzazione” contemporanea – sono certo l'opportunità di trasferimento di
“possibilità virtuali”, cioè di quella potente condizione di possibilità che è il denaro, ma più
difficilmente possono trasferire “possibilità reali” di vita, dai mezzi di sostentamento ai mezzi di
lavoro – possono aiutare a farlo, ma tramite “normali” processi di lavoro, processi di più lunga
durata. Mentre si può facilmente bombardare e distruggere le infrastrutture di un paese, le quali
sono il risultato di decenni di progetti e lavoro umano, con il risultato di bloccare rapidamente la
vita del paese per un tempo indefinito – moltiplicato dalla diminuzione del rapporto di forza
internazionale del paese stesso –, le “missioni umanitarie”, destinate a “salvare migliaia di vite” e
ad “avviare la ricostruzione” trasportando “rapidamente” risorse da una parte all'altra del pianeta,
rimangono spesso bloccate per motivi più o meno “logistici”, come nel caso della celebre “Missione
Arcobaleno” – il pendant “umanitario” dell'intervento armato in Jugoslavia del '99. Tuttavia, gli
“sprechi”, gli “scandali” dei fondi, dei medicinali e dei materiali persi, non sono soltanto dovuti a
“corruzione” e “mancanza di efficienza”, ma probabilmente anche alla troppo facile visione dello
spazio transnazionale come omogeneo e permeabile a qualsiasi tipo di flusso. Ricreare dei circuiti,
sia pure d'emergenza, per l'assorbimento e la riappropriazione di risorse in casi di privazione
implica una “conoscenza del territorio” e una capacità di “intessere relazioni” che non si adatta del
tutto alle esigenze di “rapidità” e “neutralità” – come invece nei modelli finanziari (“istantaneità”,
“tempo reale”, “a-territorialità”).
Il “segreto” del “fare politica” sta nell'avere il “senso della misura”. Non si tratta (soltanto) di una
norma di carattere prudenziale, ma di un “invito” ad una corretta e realistica valutazione delle
proprie forze e dimensioni, degli spazi occupati e nei quali ci si può inserire, delle prospettive e
delle possibilità della situazione. Se la “decrescita” è oggi uno dei temi politici più dibattuti, ciò di
cui avremmo bisogno sarebbe piuttosto una decrescita della scala a partire della quale formuliamo i
concetti e i criteri politici. Pensare il “globale” (le relazioni transnazionali) non deve significare
pensare uno spazio omogeneo di “intervento”, nel quale si possano trasportare alimenti, merci,
sevizi: tali beni, per avere un significato, devono essere “appropriati” all'interno di uno spazio
determinato con strategie particolari, le quali rendono la realtà sociale irrimediabilmente
discontinua. La politica è proprio l'organizzazione di tale discontinuità, la pratica simbolica,
riflessiva e progettuale che mette in relazione diverse strategie in spazi determinati. Ripartire da
scale più ridotte non significa tralasciare le dinamiche transnazionali, quanto innanzitutto occuparsi
di come “vogliamo” entrare in tali dinamiche e, in secondo luogo, “costruire” il proprio spazio a
partire dalle proprie determinanti geografiche.
La rappresentazione dell' “emergenza umanitaria” è l'espressione di una strategia di potenza fondata
sulla percezione di uno spazio globale. Nel caso della Libia, tale strategia non è altro che la
riaffermazione politica del rapporto centro-periferia: si tratta di un rapporto duale tra due spazi di
potenza diseguale, nel quale il più forte limita, secondo varie strategie, le possibilità politiche del

3 Connectivity è una categoria introdotta dagli storici Peregrine Horden e Nicholas Purcell nell'opera The corrupting
sea. A study of Mediterranean history. Su questi temi si veda il dialogo tra il già citato Danilo Zolo e il filosofo
Alain De Benoist: Il Mediterraneo è l'avvenire d'Europa.
più debole. Oltre alle strategie di dominio cosciente e diretto, organizzate da diversi gruppi di
potere, agisce qui tutto un insieme di strategie “universalistiche” che misconoscono le particolarità
dello spazio “altro” e pretendono di imporre visioni e progetti totalmente distanti dalla realtà e
potenzialmente dannosi. Tramite l'imposizione della rappresentazione emergenziale, si vuole che
l'Italia si “allinei” alla condanna internazionale del colonnello Gheddafi: il risultato è l'ennesima
chiusura politica ad un possibile modello alternativo mediterraneo per la politica internazionale.
Infatti, l'azione oggi più “quotata”, la no-fly zone, sembra non poter evitare una guerra (così il
segretario della difesa statunitense, Robert Gates, il 2 marzo 2011). E sulla “natura” della possibile
guerra è stato chiaro Lucio Caracciolo (la Repubblica, 8 marzo 2011), parlando della “trappola”
dell'intervento: “Liberarsi di Gheddafi non è difficile. Basta ricolonizzare la Libia. Sarà per pudore,
per ingenuità o perché non amano complicarsi la vita studiando più di una mossa alla volta, ma gli
interventisti d'Occidente sembrano rimuovere le conseguenze di ciò che vogliono”.
Un'ulteriore guerra nel Mediterraneo, dunque, in nome di quello spazio globale di intervento che
vive sotto un “patto di stabilità” a preminenza geopolitica statunitense ed egemonia normativa
neoliberale; laddove gli eventi potrebbero portare a riconsiderare la politica italiana in una
dimensione progettuale nuova e autonoma, a partire dall'instaurazione di uno spazio mediterraneo e
di relazioni basate sulla reciproca conoscenza e su comuni strategie di “sviluppo”.

Damiano De Facci
finito di scrivere il 14 marzo 2011

PS. 21 marzo. Nel momento in cui finivo di scrivere queste pagine, la guerra viveva ancora nelle
due sole dimensioni di “guerra mediatica” e “guerra lobbistica”. L'attenzione pareva essere rivolta
quasi esclusivamente alla nuova “emergenza”, il grande sisma del Giappone. Con la debolezza dei
centri geopolitici “emergenti” (principalmente Russia e Cina, senza dimenticare la mediterranea
Turchia), il protagonismo del presidente francese Sarkozy e il compiaciuto sentimento tragico della
sinistra italiana è cominciata la nuova “campagna di Libia”. L' “emergenza umanitaria” va verso la
sua soluzione con l'imporsi di una strategia di intervento armato orchestrata da Francia, Gran
Bretagna e Stati Uniti: così il Mediterraneo diventa nuovamente teatro di una guerra potenzialmente
disastrosa e che avrà sicuramente gravi ripercussioni nei prossimi mesi, anni e, probabilmente,
decenni. Non bisogna sottovalutare il ruolo delle prese di posizione e dei dibattiti nel mondo arabo e
della “scommessa”, di parte di tali prese di posizione, nel maggior significato simbolico della
“caduta del tiranno” in continuità con la “rivoluzione araba” rispetto all' “intervento dell'occidente
in un paese arabo”. Tuttavia, ciò che ritengo la conseguenza più probabile è il progressivo
scivolamento di significato proprio delle “rivolte arabe”, dalla percezione di un cambiamento alla
riaffermazione dell'egemonia occidentale sul mondo arabo, con una Libia semi-occupata capace di
influenzare direttamente i vicini “in via di cambiamento” Tunisia ed Egitto e indirettamente tutti gli
spazi contigui fino al Medio Oriente. Senza contare il lascito di lacerazioni interne al Mediterraneo
e il possibile ritorno alla politica delle “sfere d'influenza” da parte delle “potenze occidentali” e a
scenari “imperialistici” da fine XIX secolo.
Le divisioni interne alle forze “politiche” e “intellettuali” italiane di fronte alla partecipazione
dell'Italia alla guerra mostrano come l'evento dell'intervento in Libia sia simbolicamente importante
– nella ridefinizione possibile delle forze in campo e nella lotta per l'interpretazione dell'attuale fase
storica – e dimostra le possibilità di cambiamento degli equilibri strategici presenti, interni ed
esterni all'Italia – si veda, anche, la posizione della Germania e la possibilità di creare un “fronte
europeo” contro l'intervento. Se ne uscirà soltanto con una nuova maniera di pensare e con un
progetto credibile per una politica autonoma.

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