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Perché “Chaos”
La politica internazionale è una cosa difficile da comprendere fino in fondo e, per questo, è difficile seguirla. Essa è
molto di più di un semplice sistema di relazioni internazionali, di rapporti interstatali, di interconnessioni economiche,
di collegamenti fra sistemi regionali, molto di più di quella che — spesso riduttivamente — viene chiamata
―globalizzazione‖. Tra le diverse teorie che hanno tentato di spiegare tale complessità, ne è stata formulata recente-
mente una davvero particolare: applicare le leggi che regolano la biologia, la fisica quantistica e la ―teoria del caos‖
anche alle scienze politiche e alle relazioni internazionali (―Mondo Caos‖, di Roberto Menotti, edito da Laterza -
2010).
Da qui nasce l‘idea di ―Chaos‖ (scritto in inglese, con 5 lettere, come i 5 continenti): una raccolta dei migliori articoli
pubblicati da alcuni emergenti blog italiani, ―BloGlobal‖, ―Risiko-Geopolitica e dintorni‖ e ―Prospettiva internazionale‖.
Essi hanno lo scopo di promuovere la conoscenza della politica internazionale e di spiegare, in termini accessibili a
tutti, i fattori e le dinamiche che muovono il mondo e la sua, appunto, caoticità. Comprenderle permette di prendere
consapevolezza delle nostre radici e, ora come non mai, del nostro futuro!
Alle 5.30, ora italiana, Osama bin Laden, alias Sceicco del Terrore, è stato ucciso in Pakistan. Il leader di al-Qaeda si
nascondeva a Nord di Islamabad, in una valle vicino Abbottabad, sede di una base militare pachistana. L'annuncio uffi-
ciale della morte di Bin Laden è stato dato dal Presidente americano Barack Obama. I dettagli sull'operazione sono an-
cora pochi e confusi: le fonti parlano di un intervento mirato organizzato congiuntamente dai servizi segreti americani,
forse quelli pakistani e Navy Seals, i reparti speciali d'elite della US Navy, la marina statunitense. A portare
i Seals nell'area incriminata sembra sia stato il tradimento di una persona fidata di bin Laden. L'area dove era nascosto
rappresenta una zona cruciale a metà strada tra l‘Afghanistan, le aree tribali pakistane, il Kashmir e il confine con
l‘India. Un‘area che ha visto la presenza di numerosi gruppi jihadisti pakistani dove negli ultimi anni ci sono stati diversi
scontri con i militari di Islamabad.
Secondo quanto affermato dal Ministero degli Esteri pakistano in una nota ripresa dalla televisione satellitare al Arabiya,
"il blitz che ha condotto alla morte del leader di al-Qaeda è stato condotto direttamente dagli Stati Uniti". A dare confer-
ma dell'operazione condotta dagli americani, anche le televisioni indiane dicono che Islamabad è stata tenuta all'oscuro
dei fatti.
Nell'annuncio del Presidente Obama si tiene a specificare che, pur essendo il risultato più importante nella lotta al terro-
rismo internazionale, quella che si combatte non è una guerra contro l'Islam. La domanda che potremmo porci è se è
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realmente Bin Laden ad essere morto o se si tratta di un camuffamento di Washington. Il dubbio potrebbe suscitarlo
anche il fatto che il corpo sarebbe già stato gettato in mare, in una zona non precisata, per evitare fanatismi e isteri-
smi popolari. Tuttavia, anche altre volte si era parlato di bin Laden morto in un bunker sperduto dell‘Afghanistan, o di
un bin Laden gravemente malato, ma alla notizia non veniva mai data questa risonanza. Questa volta i fatti sono
riportati dallo stesso Obama che dichiara di essere stato egli stesso a dare l via libera alle operazioni dei servizi se-
greti, esponendosi, perciò, in prima persona e parlando di un grande traguardo politico per il suo governo. Sebbene
il successo dell‘operazione rappresenti un toccasana per la traballante giunta democratica e si prospetti come un
volano per le prossime elezioni presidenziali, sarebbe azzardato per il Presidente americano programmare una mes-
sinscena di così vasta eco.
La morte del cinquantaquattrenne Bin Laden probabilmente segna l‘inizio di uno spostamento del teatro di guerra
dall‘Afghanistan al Pakistan. Non a caso proprio quest'ultimo Paese è sempre stato un alleato ambiguo di Washin-
gton, perchè da un lato combatteva i Taliban in casa propria, ma, dall'altro, finanziava loro e la guerriglia del mondo
jihadista in Afghanistan in funzione anti-americana e anti-occidentale, in genere. Pertanto ora cambiano gli scenari.
Anche i rischi di nuovi attentati terroristici, in risposta all'omicidio del leader qaedista, sono molto alti. Proprio per
questo motivo diviene di vitale importanza il Pakistan.
L‘operazione contro Bin Laden arriva in un momento in cui le relazioni diplomatiche e di intelligence tra i due Paesi
avevano, tra l‘altro, raggiunto un minimo storico, a causa della cattura, a fine gennaio, di Raymond Davis, con le ine-
vitabili ripercussioni politiche. Il 27 gennaio scorso, a Lahore, il cittadino americano Raymond Davis, agente della
CIA, uccise due membri doppio-giochisti dell'ISI, il servizio segreto pakistano. L'uomo era in missione per conto del
governo USA, ma l'azione è stata poco gradita ad Islamabad, tanto da incarcerare Davis per l'atto commesso. Wa-
shington ha dunque scatenato un‘offensiva diplomatica senza precedenti per riprendersi Davis, minacciando il go-
verno pakistano di interrompere ogni aiuto finanziario, rimandando un paio di vertici internazionali, giurando che Da-
vis sarebbe comunque stato processato in patria e, infine, spedendo di corsa a Lahore John Kerry per cercare di
risolvere il pasticcio. La questione è stata risolta in sostanza secondo la legge islamica e tribale (Shari'a), che preve-
de il ‗perdono‘ e quindi l‘assoluzione dell‘assassino se ai congiunti della vittima viene pagato quello che si definisce
‗prezzo del sangue‘. L'episodio ha provocato polemiche velenose e il congelamento delle relazioni tra Pakistan e
Stati Uniti. Per l'opinione pubblica pakistana tale atto è l'ennesima conferma di una penetrazione americana nel terri-
torio attraverso spie, mercenari e basisti. In secondo luogo, nonostante in teoria CIA e ISI lavorino insieme nella
―guerra contro il terrorismo‖, gli americani ultimamente hanno proceduto autonomamente nelle operazioni militari e
di intelligence: tramite l’ammiraglio Mullen, gli USA hanno lanciato nuove pesanti accuse all'intelligence pakistana,
colpevole di tenere ancora in piedi strette relazioni con il network terroristico di Haqqani che fornisce armi, addestra-
mento e risorse ai guerriglieri che combattono le truppe della coalizione in Afghanistan. Non solo: da gennaio in poi i
servizi segreti pakistani sono stati bersaglio di una rinnovata campagna denigratoria da parte di Washington e di pe-
santi accuse di connivenza con militanti islamici vari. Se aggiungiamo anche i recenti raid americani nel Waziristan
(la parte settentrionale del Paese al confine con l'Afghanistan, dove si ritiene siano presenti cellule terroristiche),
che hanno ucciso per errore diversi civili, allora la frittata è fatta.
Secondo l‘intelligence indiana, vicino ad Abbottabad, dove è stato ucciso bin Laden, si troverebbero alcuni campi di
addestramento dei Taliban e di al Qaeda. Possibile, pertanto, che l'ISI non sapesse che a pochi km di distanza da
una sua base militare si trovava l'uomo più ricercato al mondo? Al di là del vuoto di potere politico esistente in Paki-
stan, della vera o presunta spaccatura tra gli stessi servizi segreti, tra i servizi segreti e l‘esercito (o parte di esso) e
tra l‘esercito e un governo debolissimo, rimane un problema: il rischio è che la morte di bin Laden possa segnare
una svolta negativa nella lotta al terrorismo, incrementando gli attacchi dei militanti, anzitutto su suolo pakistano, e, di
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conseguenza, l‘esacerbarsi del conflitto afghano. La scomparsa del leader di turno non comporta certamente la fine
delle varie organizzazioni islamiste che agiscono nell‘area, in quanto un cambio al vertice è stato già digerito e, pre-
sumibilmente, al-Zawahiri subentrerà nel comando dell'organizzazione. Quello che accadrà da adesso in poi sarà
una riorganizzazione del network terroristico transnazionale che perseguirà nuove tecniche e tattiche per colpire i
governi ―miscredenti‖. Il vero problema che ora sembra profilarsi è in seguente: affrontare non tanto l‘Afghanistan,
ma il caos all‘interno del Pakistan.
Come è stato scovato Osama bin Laden: una valutazione del metodo Gillepsie-Agnew - di
Prospettiva Internazionale - 2.05.2011
Nel febbraio del 2009 sulle pagine web del MIT International Reviewappariva una ricerca dal titolo Finding Osama
bin Laden: An Application of Biogeographic Theories and Satellite Imagery condotta dal Prof. John Agnew e dal Prof.
Thomas W. Gillespie. Lo scopo della pubblicazione era quello di fornire ai servizi d'intelligence delle linee guida per
poter operare la ricerca di Osama bin Laden seguendo dei parametri scientifici.
Oggi, a seguito della cattura del capo di bin Laden, possiamo valutare la bontà del metodo Agnew-Gillespie.
IL METODO GILLESPIE-AGNEW
I due professori di geografia dell'UCLA hanno diviso lo spazio ideale di ricerca in tre livelli corrispondenti a tre scale
geografiche: globale, regionale, locale. Ad ognuno di questi livelli hanno poi applicato un diverso tipo di canone spa-
ziale d'indagine. Le moderne tecnologie satellitari hanno permesso di procedere all‘individuazione concreta dei risul-
tati ideali identificati ad ogni livello di analisi.
Su scala globale e regionale sono state applicate due teorie della biogeografia utilizzate per indagare le leggi della
distribuzione della vita e dell'estinzione. I parametri di ricerca da seguire su scala globale sono stati mutuati dal-
la distance decay theory. Questa teoria afferma che esiste una relazione diretta tra la distanza di due luoghi e la va-
riazione che si riscontra nella composizione delle specie, funzione della relazione indiretta tra distanza e interazione.
Fissando come punto di partenza per l'indagine l'ultimo luogo in cui il target è stato avvistato con certezza (nel 2001
si trattava di Tora Bora e da allora non ci sono stati altri avvistamenti certi) la predizione della distance decay the-
ory su scala globale è che Osama si sarebbe nascosto in un luogo vicino al luogo dell'ultimo avvistamento, simile per
composizione dell'ambiente fisico e politico-socio-culturale. Secondo questa affermazione, per Bin Laden le probabi-
lità di essere eliminato sarebbero cresciute man mano che si fosse allontanato dai luoghi del suo background socio
culturale dunque, di riflesso, le probabilità di trovarlo sarebbero state maggiori nei luoghi affini alle sue caratteristiche
politico-culturali.
E‘ stato usato un semplice modello esponenziale (P(d) = k^d) dove k è la costante derivata dall‘ipotesi che ci sia l‘1%
di probabilità che Osama bin Laden sia a Washington D.C. ed il 99% di probabilità che sia nella zona in cui è stato
visto l‘ultima volta, d è la distanza dall‘ultima localizzazione e P(d) è la conseguente probabilità che si trovi a quella
distanza. Quindi, secondo la distance-decay theory, se si suppone che Osama bin Laden sia più lontano da Tora
Bora e più vicino a Washington, sarà minore la probabilità che sia effettivamente localizzabile in quel punto.
L‘equazione risultante P(d) = 0.99959058977238^d è usata per calcolare i singoli valori di probabilità ad una certa
distanza.
Fig2. Modello esponenziale distance-decay con distanza e probabilità Fig3. Modello della probabilità di
della localizzazione di Bin Laden. Fonte:Finding Osama bin Laden: An localizzazione di Bin Laden su sca-
Application of Biogeographic Theories and Satellite Imagery la globale basato sulla distance-
decay theory. Fonte:Finding Osa-
ma bin Laden: An Application of
Biogeographic Theories and Satel-
lite Imagery
Su scala regionale è stata applicata l'island biogeography theory, secondo la quale i tassi di estinzione di specie che
vivono in isole piccole sono più elevati e i tassi di emigrazione verso queste sono minori. Seguendo i dettami di que-
sta teoria si è giunti a pensare che Osama bin Laden si sarebbe nascosto con maggiore probabilità in una città me-
dio-grande che non in una caverna o in una isolata piccola città. Con l‘ausilio di strumenti GIS si procede al calcolo
delle dimensioni areali e delle metriche di isolamento delle diverse città e con l‘ausilio di foto satellitari si rilevano
centri urbani a maggior intensità luminosa notturna, individuando dunque i principali candidati. Il procedimento si ap-
plica in modo scalare partendo dalle zone a maggior probabilità risultanti dall‘analisi del livello globale verso quello a
minore probabilità.
Nell‘esempio operazionale proposto da Gillespie e Agnew alla luce dei due criteri citati fin qui, la scelta è ricaduta su
Parachinar[1].
Arrivati a questo punto bisogna seguire dei criteri che orientino la ricerca su scala locale. Per individuare il tipo di
struttura adatta a nascondere Bin Laden sono state prese in considerazione sei caratteristiche peculiari del soggetto
ricercato:
Il risultato finale, nel caso in esame di Parachinar, è che Bin Laden si sarebbe nascosto in una di queste strutture:
Fig7. Abbottabad nel modello esponenziale distance-decay Fig8. Illuminazione notturna di Abbottabad
Anche la parametrica dell‘analisi su scala regionale ha un forte riscontro positivo. Abbottabad è infatti un rilevante
centro urbano ed un importante centro del commercio[4].
Su scala locale le caratteristiche della struttura in cui Bin Laden si nascondeva corrispondono alle caratteristiche che
Gillespie-Agnew hanno dedotto a partire dalle caratteristiche del target. Il nascondiglio di Bin Laden aveva pareti alte
fino a 5 metri, fornitura elettrica, mura di cinta e filo spinato, poche finestre, sistemazioni per le guardie del corpo e
per i membri della famiglia e vegetazione circostante. Segue un paragone fotografico tra la tipologia di edificio indivi-
duato da Gillespie-Agnew e l‘edificio in cui è stato trovato Osama bin Laden.
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[1] Pare però che ai due autori sia sfuggito che la scelta di Parachinar sarebbe in contrasto con gli assunti del livello globale di
analisi in quanto Parachinar al 2009 era una città a maggioranza sciita. Questa piccola svista operativa però non inficia la
valenza generale del modello.
[2] cfr. Detective Work on Courier Led to Breakthrough on Bin Laden, www.nytimes.com 2 5 2011
[3] cfr. Pakistani TV delves into lives of Afghan refugees, United Nations High Commissioner for Refugees 30 4 2008
[4] cfr. Bin Laden's "Cave": A Golf Course, An Army Base & Hospital - and a Red Onion Restaurant,
www.huffingtonpost.com 2 5 2011
4. Come cambieranno (o sono cambiati) i rapporti tra USA e Pakistan? Il fatto che Bin Laden fosse comodamente
ospitato all'interno del territorio pakistan non giova certo all'immagine del paese asiatico agli occhi di Washington. Un
po' come quando si arresta un boss mafioso in casa sua al centro di Palermo. Sorge appunto la domanda: "Come è
stato possibile non scovarlo prima?". Probabilmente in questi mesi è cambiato qualcosa nel rapporto tra i due paesi
che ha permesso di procedere con le operazioni di intelligence che hanno portato all'uccisione di Bin Laden.
5. Come cambierà la guerra al terrorismo? E soprattutto, come si modificherà il terrorismo internazionale? In questi
dieci anni di caccia all'uomo, al-Qaeda ha sempre mostrato una grande facilità nell'organizzarsi e ri-strutturarsi nono-
stante le decapitazioni subite, proprio come una grande multinazionale che sostituisce i propri quadri con grande
rapidità ed efficienza. Bin Laden, che potrebbe essere considerato un AD della multinazionale del terrore, potrebbe
accadere lo stesso.
Le modalità poco chiare del blitz che ha portato all'uccisione della mente del terrorismo internazionale, il nemico pub-
blico numero uno, Osama Bin Laden, hanno anche aperto una profonda ferita nell'allenza pakistano-americana. Il
fatto che la Casa Bianca, poi, non avesse avvisato i pakistani dell'operazione in corso la dice lunga sul grado di dete-
rioramento dei rapporti tra leintelligence dei due paesi. Ed anche a livello politico le cose non sembrano andare me-
glio. Ovviamente,il Pakistan sta perdendo credito per la propria instabilità politico-istituzionale e per un evidente dop-
piogioco tra alleanze geopolitiche e spinte integraliste.
L'India, al contrario, ha trovato molto giovamento da questi dissidi interni alla coalizione ed infatti David Rothkopf, la
colloca tra i vincenti dell'operazione americana. Questa manna dal cielo è calata proprio poco dopo la visita di Oba-
ma in India. Proprio durante il viaggio dello scorso novembre, erano stati cautamente avanzati dubbi sul ruolo duale
del Pakistan. Evidentemente, pochi mesi dopo la conferma è arrivata.
Per gli americani, però, il vero problema rimane l'alleato disobbediente pakistano. Il dilemma dell'Afpak è il nodo cru-
ciale della politica statunitense dell'inizio del XXI secolo. Difficilmente sarà possibile abbandonare un ex alleato (il
Pakistan) e un paese che si era invaso per tentare un export democratico (l'Afghanistan) a sé stessi. C'é chi pensa
ad una sorta di bilancia di interessi che potrebbe aiutare a stabilizzare l'intera regione.
"U.S. interests are broadly shared by China, Pakistan's primary ally and a major investor in the country's economic
success", scrive Patrick Doherty su Foreign Policy. In pratica, coinvolgendo anche la Cina negli investimenti in Paki-
stan si contribuirebbe a stabilizzare il paese. Certamente gli americani dovrebbero rinunciare al monopolio concla-
mato della gestione degli accordi commerciali con il paese asiatico. Questo multipolarismo è già da tempo entrato
nell'agenda dell'amministrazione Obama. D'altro canto, questo power sharing consente all'America, in un periodo
economico non certo felice, di non ergersi sempre ed inevitabilmente come "parafulmine" per i conflitti internazionali
che si profileranno nel futuro prossimo venturo. La crisi libica è stato un piccolo esempio di una leadership condivisa
con altri paese. E gli USA non hanno fatto nemmeno il primo passo per attaccare Gheddafi.
Certamente, ci sono ancora attriti importanti tra USA e Cina. Una su tutti è la questione dei diritti umani. Infatti, pro-
prio mentre Doherty tracciava le linee guida per una stabilizzazione sino-americana del Pakistan, gli Stati Uniti piaz-
zavano l'ennesima frecciata a Pechino. Lunedì Wang Qishan, vicepresidente cinese, era alla Casa Bianca per un
incontro bilaterale, dove la controparte americana ha espressoprofonda preoccupazione per la sorte dei dissidenti
come il premio Nobel Liu Xiaobo. Soprattutto Joe Biden ha invitato la Cina a fare di più proprio sul tema dei diritti
umani.
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Il vero problema pakistano - di Alessandro Badella (Risiko) - 17.05.2011
La morte di Bin Laden ha causato una vera e propria escalation nei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan. Ne ho già par-
lato in precedenza, ma è bene soffermarsi su quello che potrebbe essere uno scenario di frattura decisamente futuri-
bile. Alcuni analisti si aspettano anche che, da pc sequestrati nel covo pakistano dello sceicco del terrore, saltino
fuori verità scomode sull'alleato regionale americano e sulla sua connivenza con il terrorismo di matrice islamica.
E tutto potrebbe cambiare, così come l'agenda della amministrazione Obama su Islamabad. Tanto più che, proprio
oggi, è scoppiato un mezzo caso diplomatico proprio tra il Pakistan e la NATO. Un'operazione dell'Alleanza Atlantica
in Waziristan del Nord non è stata ben accetta ai pakistani che hanno denunciato una violazione dello spazio aereo.
Nei prossimi giorni è probabile aspettarsi un chiarimento da ambo le parti, ma la "malsopportazione" reciproca sta
alzando imprevedibilmente la tensione.
Da qui, Kamrany, docente alla University of Southern California, ha voluto tracciare alcuni scenari possibili. O me-
glio, si tratterebbe di una vera e propria road map che gli americani potrebbero\dovrebbero intraprendere per
"punire" il Pakistan per questo doppio gioco, sottraendogli gran parte dei supporti economici e militari finora garantiti.
Per l'appunto, scrive Kamrany, si dovrebbe:
1. Take out Pakistan's atomic facilities, thereby neutralizing its ability to detonate atomic weapons in any future
conflicts.
2. Dismantle the ISI apparatus and arrest its leadership for crimes against humanity, including judicial criminal
prosecutions that have caused the death and dismemberment of thousands of American soldiers and Afghan sol-
diers and civilians in Afghanistan. But for Pakistan's duplicity, the United States and Afghanistan would not have
suffered sustained casualties inside Afghanistan. ISI of Pakistan was the ring leader of a criminal conspiracy who-
se members included bin Laden and Al Qaeda, the Pakistani Taliban, the Jalaluddin Huqqani group, the Mullah
Mohammad Omar and the Afghani Taliban, and the Gulbuddin Hekmatyar group.
3. Impose war reparation upon Pakistan equal to the present and future value of the following: Work-life earnings
loss and the value of life of every American and Afghan soldier and civilian killed since 2001, and the present va-
lue and future value of every American and Afghan soldier and civilian who sustained partial or total disabilities
for the remainder of their life, plus the military and civilian expenditures of the U.S. war in Afghanistan since 2001
(had Pakistan turned over bin Laden to the U.S. in 2001, there would have been no U.S. war involvement in Af-
ghanistan. Plus $20 billion -- the amount of assistance that Pakistan has received from the United Sates since
2001, plus punitive damages for bad faith.
4. Dissect Pakistan into three smaller states -- Baluchistan for the Baluchi separatists including the city of Quetta,
Pashtunistan for the Pashtun separatists covering the Pashtun tribal areas including Peshawar and the border
areas, and Pakistan proper including Lahore and the Karachi areas. The ongoing domestic dissent in the Pashtun
and Baluchi areas are rooted in the exploitative and discriminatory practices of the ruling class of Pakistan -- the
Lahore elite -- who have alienated those groups.
5. Create a strong civilian government in Pakistan by dismantling the ISI, reducing Pakistan's military prowess
and supporting the educated and secular population. Pakistan has a strong judiciary and press at this time. A
strong civilian government is needed to implement democratic institutions and processes.
6. At a minimum, Pakistan must turn over to the United States Gulbuddin Hekmatyar from the Peshawar are-
a, Jalaluddin Haqqani from the northern Waziristan area and Mullah Mohammad Omar from Quetta, Baluchistan
area. These insurgents are shooting at American and Afghan soldiers inside Afghanistan and enjoy safe havens
that are provided by ISI and are being sheltered in Pakistan.
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Si tratterebbe di una sorta di imposizione americana su uno stato sovrano. Alcune disposizioni sono, poi, assoluta-
mente arbitrarie: in pratica gli Stati Uniti dovrebbero imporre una divisione del territorio ad uno stato sovrano. Un po'
come se Obama chiamasse Napolitano dicendo: "Dovete creare uno stato padano!"...una cosa da pazzi. Ci vorreb-
be, in pratica, un'altra guerra, un Afghanistan bis. Lo stesso dicasi per lo smantellamento dell'ISI, i servizi segreti
pakistani che sono stati creati proprio con i fondi dell'intelligence statunitense, soprattutto durante la guerra fredda.
La situazione chiaramente impone un reset da parte dell'amministrazione americana ed un monitoraggio molto più
stretto sui fondi che gli Stati Uniti devolvono al Pakistan. Tuttavia, a mio avviso, potrebbe essere un grosso erro-
re lasciare il paese a se stesso. Con tutta probabilità si potrebbe ricreare una situazione molto simile a quella dell'Af-
ghanistan. Per poi meditare un nuovo intervento armato, proprio come contro i talebani? Questo potrebbe voler dire
non aver imparato nulla dalla storia recente.
Gran parte del problema pakistano è un problema americano, un problema storico però. Storico ed auto-indotto. L'I-
SI, che rappresenta un attore politico indipendente sulla scena pakistana, è di fatto il risultato di una politica di como-
do che andava benissimo alle varie amministrazioni americana durante la guerra fredda, proprio come andavano
bene i colonnelli in Argentina. Meglio una"democrazia sequestrata" che lo spettro dell'invasione del comunismo. Il
Pakistan, così come l'Afghanistan fu una di quelle linee di confine in cui venne tracciato il solco profondissimo tra i
limiti economici e geopolitici dell'URSS e il capitalismo statunitense, sancendo così la sconfitta della prima e la defi-
nitiva pax americana.
Dalla metà degli anni Ottanta gli scenari sono decisamente cambiati però. Anche il buon Ben Alì, l'egiziano Mubarak
ed il confortevole nemico Gheddafi sono stati spazzati via dalle proprie poltrone. Gli assetti geopolitici sono cambiati,
così come sta mutando anche il corso degli eventi in Siria. Probabilmente, allontanandosi dalle sovvenzioni "di co-
modo" avremo rivolte di piazza e giustizia anche in Pakistan. Con buona pace dell'ISI.
La pace non può essere imposta: soprattutto ad Israele- di Gianpiera Mancusi (BloGlobal)
- 24.05.2011
Sono molti gli israeliani che possono dirsi soddisfatti del discorso tenuto dal presidente Obama dinanzi all'American
Israel Public Affairs Committee (AIPAC). Tra questi c'è di sicuro Benyamin Netanyahu: il Premier israeliano, infatti,
non ha tardato a commentare positivamente l'intervento del Presidente americano. Non solo perché Obama ha fatto
menzione di due temi piuttosto cari ad Israele: l'amicizia tra i due Stati, basata sulla condivisione di valori fondamen-
tali, e la sicurezza nazionale (un vero pallino per uno Stato che sente costantemente minacciata la sua esistenza).
Obama ha di fatto posto fine all'equivoco nato intorno alle parole pronunciate giovedì. «La mia posizione sui confini
del '67 è stata mal interpretata da molti. Ciò che io ho sostenuto significa che Israele e Palestina negozieranno un
confine diverso da quello che esisteva il 4 giugno del 1967». Se avesse confermato la precedente versione (ossia il
ritorno ai confini pre-Guerra dei Sei Giorni) Obama avrebbe davvero dato una svolta alla politica estera americana.
Ma in America è già tempo di campagna elettorale e l'appoggio della lobby ebraica diventa fondamentale per essere
rieletti. Possono, quindi, tirare un sospiro di sollievo i circa 300.000 mila coloni che vivono in Cisgiordania. Meno con-
tenti i Palestinesi: nessuna menzione del loro diritto a ritornare nei territori dai quali furono scacciati a partire dal
1948. Il Presidente ha poi criticato il recente accordo tra Hamas e Fatah, definendo la prima un'organizzazione terro-
ristica e riconoscendo come unico interlocutore il governo di Ramallah.
Ma ciò che è più importante, per lo stato d'Israele e per l'intera comunità ebraica, è la volontà americana di non dare
alcun seguito qualora, durante la prossima Assemblea Generale, le autorità dell'OPT (Occupied Palestinian Territo-
ries) proclamassero la costituzione dello Stato palestinese (che comprenderebbe West Bank, Gaza e Gerusalemme
Est). Se messa ai voti, tale dichiarazione passerebbe di sicuro, non solo per l'appoggio da parte di tutto il mondo
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arabo, ma anche perché molti Paesi europei (tra cui la Francia) hanno già preannunciato il loro assenso. Ma avere il
sostegno della superpotenza americana, si sa, conta più dei voti: e questo Netanyahu lo sa bene. Sebbene gli Usa
non abbiano potere di veto in seno all'Assemblea (dove seggono tutti i rappresentanti degli Stati membri dell'ONU),
nei prossimi mesi la diplomazia americana userà tutti gli strumenti diplomatici a disposizione per scongiurare un tale
"tsunami politico". D'altronde "nessun voto alle Nazioni Unite potrà mai creare uno Stato Palestinese indipendente".
Alla faccia del cambiamento e della democrazia.
"A strong and secure Israel is in the national security interest of United States not simply because we
share strategic interests, although we do both seek a region where families and their children can live
free from the threat of violence. It's not simply because we face common dangers, although there can
be no denying that terrorism and the spread of nuclear weapons are grave threats to both our nations".
Da qui è difficile pensare una politica estera molto distante da quella intrapresa dai predecessori.Impossibile stacca-
re la spina da una alleanza buona e giusta e strategicamente vantaggiosa, insomma. Soprattutto la definizio-
ne "strong Israel" sembra più da stratega militare che da democtratico liberal, apparentemente aperto al dialogo per
la pace. In conclusione:
"Because we understand the challenges Israel faces, I and my administration have made the security of
Israel a priority".
La principale minaccia per Israele, secondo Obama, rimane il regime iraniano ed il presidente elenca tutte le misure
intraprese, sotto l'ègida dell'Onu per prevenire la fruizione di armamenti nucleari da parte di Teheran. Abbastanza
prevedibile e scontato il sostegno all'esistenza di Israele:
"You also see our commitment to Israel's security in our steadfast opposition to any attempt to de-
legitimize the State of Israel. As I said at the United Nation's last year, "Israel's existence must not be a
subject for debate," and "efforts to chip away at Israel's legitimacy will only be met by the unshakeable
opposition of the United States."
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"First, the number of Palestinians living west of the Jordan River is growing rapidly and fundamentally
reshaping the demographic realities of both Israel and the Palestinian Territories. This will make it har-
der and harder, without a peace deal, to maintain Israel as both a Jewish state and a democratic state.
Second, technology will make it harder for Israel to defend itself in the absence of a genuine peace.
Third, a new generation of Arabs is reshaping the region. A just and lasting peace can no longer be
forged with one or two Arab leaders. Going forward, millions of Arab citizens have to see that peace is
possible for that peace to be sustained".
Per prima cosa, abbiamo una valutazione di carattere demografico: i palestinesi fanno figli e crescono numericamen-
te, mentre gli israeliani no. Quindi i territori palestinesi occupati potrebbero diventare una sorta di bomba demografi-
ca molto pericolosa per Israele. Il secondo punto rimane abbastanza oscuro ed il termine "tecnologia" si presta a
molteplici interpretazioni...Israele sarà oggetto di attacchi informatici? La stabilità regionale sarà messa a dura prova
dalle rivoluzioni twitteriane? Non si capisce bene.
Il punto più importante è forse il terzo citato da Obama. Le proteste di piazza e le rivolte del mondo islamico stanno
effettivamente cambiando il corso della storia. E potrebbe essere, secondo Obama, un momento propizio per pren-
dere la palla al balzo e provare ad imbastire un dialogo con un'opinione pubblica islamica che finalmente si mostra
pubblicamente, sconfessando chi negava la sua esistenza.
Grossomodo l'obiettivo della politica mediorientale degli Stati Uniti dovrebbe essere all'incirca questo:
The United States believes that negotiations should result in two states, with permanent Palestinian
borders with Israel, Jordan and Egypt and permanent Israeli borders with Palestine. The borders of
Israel and Palestine should be based on the 1967 lines with mutually agreed swaps so that secured
and recognized borders are established for both states. The Palestinian people must have the right to
govern themselves and reach their potential in a sovereign and contiguous state.
Obama, ha quindi riaffermato la sua convinzione della bontà dei confini del 1967 come base di partenza per un ac-
cordo che crei effettivamente due popoli e due stati, il vero obiettivo finale della pacificazione in Palestina.
Obama sembra credere maggiormente ad un accordo bilaterale, come se fosse una prova generale per la creazione
di due entità statali indipendenti con potere di imperio sul proprio territorio e quindi anche con la possibilità di impe-
gnarsi politicamente sul piano internazionale. Questa soluzione dovrebbe essere alternativa a piani di pace o road
maps quasi sempre proposte da consessi internazionali multilaterali od organizzazioni internazionali.
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II. Se in Nord Africa e in altri paesi mediorientali gli Stati Uniti attendono che le istanze di cambiamento si manifestino
per poi decidere eventualmente di appoggiarle, in Israele-Palestina il gioco è diverso. Nessuna azione unilaterale
palestinese, come il ricorso alle organizzazioni internazionali, sarà presa in seria considerazione, saranno ritenute
istanze di cambiamento solo gli sforzi bilaterali e gli impegni tra le parti volti alla costituzione dei famigerati due Stati.
Per capire in che misura questo atteggiamento statunitense sia a favore dello status quo in Israele-Palestina ricor-
diamo brevemente solo alcuni dei problemi (che le parti dovrebbero affrontare e risolvere) insiti in tale formula.
In primo luogo bisognerebbe sciogliere il nodo della sovranità. I palestinesi ovviamente aspirano ad avere uno Stato
sovrano nel senso pieno del termine mentre i leader israeliani anche accettando la terminologia dei due Stati imma-
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-ginano una sovranità di serie C: uno Stato palestinese economicamente (e idricamente) indipendente con un suo
esercito ed il controllo dei suoi confini? Ma siamo pazzi!? In merito alla definizione della sovranità e del significato
dell'espressione "due Stati" si ricordi cosa avvenne al summit di Taba nel 2001.
Quanto alla definizione dei confini i palestinesi non accetteranno variazioni significative rispetto alla linea del '67. De-
marcazione che Israele non potrà mai accettare dato che significherebbe smantellare tutti gli insediamenti presenti
sul territorio di questo fantomatico Stato palestinese.
I due Stati saranno secolari? Come potrebbero mai accordarsi le parti in merito? Israele avendo a disposizione un
posto verso cui sfrattare i palestinesi che attualmente vivono entro i confini dello Stato ebraico potrebbe finalmente
coronare il suo sogno e, liberandosi di quella "anomalia" costituita dai suoi cittadini di serie b, divenire uno Stato e-
braico al 100%. Oltre al fatto che questo milione e mezzo di cittadini israeliani potrebbero non voler abbandonare
le proprie case e che il problema concerne la più complicata questione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi,
uno Stato israeliano che afferma il suo diritto ad essere al 100% ebraico potrebbe mai accettare uno Stato palestine-
se e mettiamo musulmano?
Caro Obama, Israele ringrazia.
Palestina: alla ricerca dello Stato perduto - di Eleonora Peruccacci (Risiko) - 30.05.2011
La Lega Araba ha recentemente votato favorevolmente sulla possibilità che le Nazioni Unite appoggino
la formalizzazione di uno Stato palestinese nella Striscia di Gaza. La capitale risiederebbe nella parte Est di Gerusa-
lemme. Ma cosa più importante sarebbe il possibile seggio in sede ONU conferito proprio al neo-Stato.
Il presidente dell‘Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, nel corso del meeting svoltosi a Doha sul processo di pace
in Medio Oriente, ha spiegato che la decisione di chiedere un riconoscimento formale all‘Assemblea Generale
dell‘Onu il prossimo settembre ―non è una manovra tattica ma una scelta politica presa alla luce del sole che solo un
negoziato di pace che partisse su nuove basi potrebbe cambiare‖.
Questo avvenimento potrebbe lasciare aperto uno spiraglio per la prosecuzione del processo di pace, sebbene Ab-
bas ammetta che Israele non ha dato molti segni di apertura. La Lega Araba sta così cercando di fare pressione su-
gli israeliani e spingerli a fare quelle concessioni che, a oggi, Netanyahu rifiuta.
In tutto questo, Obama spera ancora di poter ricoprire un ruolo di fondamentale importanza, attraverso u-
na mediazione diplomatica statunitense. C‘è comunque da dire che, l‘eventuale votazione per un seggio palestinese
in seno all‘ONU potrebbe essere osteggiata proprio dagli Stati Uniti, che non solo hanno diritto di veto, ma sono da
sempre storici alleati israeliani.
Dopo le dichiarazioni perentorie di Netanyahu, in effetti, il presidente nordamericano si è subito sbrigato a dire che
l‘opzione del ritorno ai confini precedenti al 1967 era stata fraintesa. Questa remissività, dunque, lascia sperare ben
poco verso un‘apertura dell‘ONU all‘ingresso della Palestina. In sede di votazione i nodi verranno al pettine e Obama
non potrà esimersi da un ri-schieramento a favore di Israele.
Pagina 15 CHAOS
The Office gathered direct evidence about orders issued by Muammar Gaddafi himself, direct eviden-
ce of Saif Al Islam organizing the recruitment of mercenaries, and direct evidence of the participation
of Al Sanousi in the attacks against demonstrators. Additionally the Office documented how the three
held meetings to plan the operations.
The evidence shows that civilians were attacked in their homes; demonstrations were repressed using
live ammunition, heavy artillery was used against participants in funeral processions, and snipers pla-
ced to kill those leaving the mosques after the prayers.
Praticamente Gheddafi e parte dell'esecutivo sono accusati di aver deliberatamente utilizzato la violenza contro civili
inermi. Il ministro Frattini si è subito lanciato in una previsione abbastanza "ingombrante", che probabilmente sarà
scarsamente realizzabile. Sta di fatto, però, che il regime libico ne esce ancor più isolato di quanto già non fosse da
febbraio a questa parte.
Pagina 19 CHAOS
Libano: tra crisi interna e instabilità regionale - di Giuseppe Dentice (BloGlobal) - 29.05.2011
Lo scorso venerdì, intorno alle ore 16 italiane, una bomba è esplosa al passaggio di un mezzo UNIFIL con a bordo
militari italiani lungo l'autostrada da Beirut a Sidone, nei pressi del fiume Awwali, lo stesso luogo in cui il 1 agosto
2008 fu compiuto un attentato dinamitardo contro i caschi blu irlandesi. L’attentato ai caschi blu italiani a Sidone va
inserito all'interno del contesto regionale e internazionale, ma anche della cronica debolezza interna che pone il Pae-
se, tradizionalmente, come un terreno di scontro ―privilegiato‖ fra i numerosi interessi contrastanti. Infatti, sia la situa-
zione interna – caratterizzata dalla fuoriuscita di 11 ministri di Hezbollah dal governo di colazione Hariri, congiunta-
mente al verdetto di condanna del Tribunale Speciale per il Libano che ha incriminato alcuni suoi membri per l'omici-
dio di Rafiq Hariri –, sia quella regionale – con le rivolte siriane e con il sempre difficile rapporto con Israele che pon-
gono il Paese dei Cedri direttamente interessato alle possibili evoluzioni nell'area – rappresentano fattori di instabilità
da non sottovalutare.
Il Libano è un piccolo Paese le cui complesse componenti interne (sono riconosciute 18 differenti comunità etnico-
religiose) sono sempre state sollecitate da attori esterni (regionali o internazionali). Dal 2005, con la morte dell'ex
premier Hariri, la frammentazione interna riflette le divisioni regionali tra coloro che in maniera ferrea vorrebbero
mantenere lo status quo (Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti) e coloro che vorrebbero costruire una nuova idea di
Vicino e Medio Oriente (Iran e Siria su tutti). Il fronte nazionale si suddivide, grosso modo, tra un blocco espressione
della vecchia maggioranza di governo costituita dal gruppo ―Coalizione 14 marzo‖ – che al suo interno raccoglie i
sunniti di al-Mustaqbal di Saad Hariri, i cristiani maroniti del ―Kataeb‖ e delle ―Forze libanesi‖ e i drusi di Walid Jum-
blatt – e da un insieme di partiti di opposizione – gli sciiti di ―Hezbollah‖ e ―Amal‖, rispettivamente guidati da Hassan
Nasrallah e dallo speaker del Parlamento Nabih Berri, il Movimento Patriottico Libero dell'ex generale Michel Aoun, e
altri sunniti. Parlare di maggioranza e di opposizione in un Paese come il Libano rischia di essere fuorviante, in
quanto i delicati equilibri nati all'epoca della fondazione della Repubblica e della Costituzione nazionale (1922-1926)
e, successivamente, rafforzati con gli accordi di Ta'if (1975-1989) dopo la guerra civile, non definiscono competenze
e divisione dei poteri precisi tra le comunità, rendendo, pertanto, l‘attività di governo sterile ed esposta a continue
crisi politiche. Risulta evidente l'immagine di un Paese debole, con una vasta gamma di gruppi armati che, spesso,
operano al servizio degli interessi di altre potenze straniere.
Secondo la Banca Mondiale, il Libano possiede un‘economia aperta e di piccole dimensioni, fondata sul settore dei
servizi. Gli altri settori che aiutano ad implementare il PIL libanese sono l‘attività estrattiva per l‘industria del cemento
e l'agricoltura. L'economia libanese è basata essenzialmente sui servizi e sull'import-export che rappresentano un
settore fondamentale della ricchezza nazionale. Il calo di questi settori indica un rallentamento della produzione ine-
vitabilmente tradotta in una contrazione della ricchezza. Pur essendo un'economia solida rispetto alle altre della re-
gione, permangono alcune criticità. Come osservato dall'Economist Intelligence Unit, il PIL libanese è diminuito
nell'ultimo biennio (dal 7.5% al 6.2%). L'alta corruzione (su una scala di valori da 0-9 stilata da Transparency Interna-
tional, il Paese è al livello 3), l'alto livello della disoccupazione giovanile (secondo l'UNDP il dato è al 55%), l'elevato
debito pubblico (pari al 150% del PIL), l'alta percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà (il 28%, ma comun-
que al di sotto della media regionale), il farraginoso apparato burocratico e la crisi economica globale, hanno influito
ad peggioramento dell'economia nazionale. Ad ogni modo, i dati macro-economici sono influenzati, in maniera deter-
minante, dalla precaria situazione interna e dal caotico contesto regionale.
In questo momento, il Libano è un Paese con un governo debolissimo, retto da un contestatissimo nuovo Primo Mini-
stro, Najib Miqati, un ricco milionario sunnita sostenuto da Hezbollah e da Nasrallah in persona. Le condizioni econo-
miche e sociali del Paese sono peggiorate negli ultimi tempi e l‘attentato di venerdì non fa che sottolineare questa
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situazione di tensione e rischi. Le tensioni tra Hezbollah eAl-Mustaqbal, guidato dall‘anti-siriano Saad Hariri, figlio di
Rafiq, e, più in generale, tra sunniti e sciiti, si erano aggravate quando la scorsa estate si erano fatte sempre più pe-
santi le accuse verso Hezbollah di essere gli esecutori dell‘attentato in cui perse la vita Rafiq Hariri, nel 2005. Queste
accuse, confermate dal verdetto del Tribunale Speciale per il Libano, hanno aperto una lunga crisi politica da cui il
Paese non riesce ad uscire. Il nuovo Premier non riesce a coagulare intorno a sé tutte le anime politiche di cui il Pae-
se si compone, perpetrando così una diffusa instabilità. Il momento è quindi particolarmente teso. Chi vuole governa-
re il Libano deve fare i conti con Hezbollah, uno dei poteri forti della politica nazionale libanese. Hezbollah controlla
tantissime zone importanti del territorio libanese. Oltre ad avere sotto controllo interi quartieri di Beirut, ha le sue zo-
ne di influenza più radicate nel Sud, ai confini con Israele, strategicamente e militarmente importanti. Pertanto chi
vuole governare in Libano non può far a meno degli sciiti. Anche i drusi, però, risultano essere decisivi nella stabilità
della nazione. I Drusi sono una piccola comunità di origine musulmana guidata, in Libano, da Walid Jumblatt, anch'e-
gli un milionario libanese parte del movimento anti-siriano ―Coalizione 14 Marzo‖. Jumblatt, a differenza di Hariri, si è
dichiarato disponibile ad avviare trattative con Hezbollah e, pertanto, una sua alleanza con gli sciiti potrebbe risultare
decisiva nel rilancio politico del Paese. Infatti, una rapida soluzione dei problemi interni potrebbe evitare il diffondersi
della Primavera Araba anche nel Paese, in quanto l'instabilità politica libanese si riflette irrimediabilmente anche nel
contesto regionale.
Ad oggi, la situazione è ancora molto incerta e il futuro del Libano è legato al senso di responsabilità delle sue forze
politiche e sociali. Se sapranno unirsi, cercando di far prevalere il sentimento nazionale, ci saranno meno probabilità
per un risvolto rivoluzionario. Questo risultato potrebbe essere favorito, anche, grazie alla difficile situazione dei due
vicini più prossimi Siria e Israele. La Siria ha sempre influenzato la politica del Paese, ritenuto da sempre parte inte-
grante del disegno politico e storico della ―Grande Siria‖. Lo dimostrano gli eventi di questi anni e l'alleanza che l'ala-
wita Assad ha stretto con gli sciiti di Hezbollah. Al momento attuale, il regime di Assad è troppo preso dalle proteste
interne e dalle possibili ricadute su altri Paesi dell'area. Le preoccupazioni relative alla Siria lasciano spazio a quelle
relative ad Israele. Le varie invasioni subite dal Libano (nel 1982 e nel 2006) e le varie guerre susseguitesi hanno
alimentato molta diffidenza e hanno incancrenito anche i rapporti politici e diplomatici tra i due Paesi. La situazione
difficile farebbe propendere, per lo più, ad un mantenimento dello status quo. Nessuno vuole un nuovo conflitto per-
ché complicherebbe ulteriormente il quadro regionale. Avrebbe riflessi diretti verso i vicini e verrebbe utilizzato
dall‘Iran per rafforzare la sua posizione, trasformandosi in un vero egemone regionale. Si accrescerebbero così, ov-
viamente, i timori dell‘Arabia Saudita e degli stessi Stati Uniti che non potrebbero rimanere impassibili di fronte ad un
ulteriore rafforzamento iraniano. Per evitare tale rischio, sauditi e siriani, poco tempo fa negoziarono un compromes-
so: Hezbollah avrebbe accettato senza reagire la sentenza di condanna di taluni suoi membri, mentre il primo mini-
stro Saad Hariri si sarebbe dimesso – anche se questi non ha accettato. Oggi, però, le premesse sono cambiate a
causa delle rivolte che stanno rimodellando la geopolitica della regione, ma pare evidente che la crisi dell'area po-
trebbe favorire, paradossalmente, la riconciliazione nazionale. Questa potrà essere raggiunta solo se ognuna delle
componenti di questo intricato puzzle accetterà di ridimensionare il proprio potere per il bene nazionale. Sebbene il
quadro interno rimanga preoccupante, le volontà degli attori regionali di mantenere almeno il Libano stabile, sembra-
no escludere, in tempi brevi, che il Paese dei Cedri possa essere sconvolto da rivoluzioni. Il Libano, comunque, non
deve ritenersi al sicuro da eventuali contraccolpi regionali.
Pagina 21 CHAOS
Europa
L’arresto di Mladic: la lunga strada della Serbia verso l’UE- di Maria Serra (BloGlobal) -
28.05.2011
Dopo 16 anni di latitanza, è stato arrestato Ratko Mladic, ex capo militare dei serbi di Bosnia e incriminato per geno-
cidio e crimini contro l‘umanità. Trionfante il Presidente serbo, Boris Tadic, che con l‘arresto del super-ricercato può
mettere fine ad una delle pagine più difficili della storia recente dell‘ex-Jugoslavia, dei Balcani e dell‘Europa inte-
ra. Esultante anche il governo di Mirko Cvetkovic, secondo cui il successo dell‘operazione ha accresciuto la credibili-
tà morale della Serbia e ha abbattuto, perciò, l‘ultimo ostacolo per il processo di adesione all‘Unione Europea. Non a
caso, l‘arresto avviene nel giorno in cui è in visita a Belgrado l‘Alto Rappresentante dell‘Unione Europea per la Politi-
ca Estera e di Difesa comune europea, Catherine Ashton, e a pochi giorni dalla presentazione in sede ONU di un
rapporto (negativo) del Tribunale Internazionale per l‘ex Jugoslavia sulla collaborazione serba.
Pagina 23 CHAOS
Tuttavia, non sarà l‘arresto del ―Boia di Srebrenica‖ a mitigare la considerazione che le organizzazioni occidentali
hanno della Serbia e ad influire sul successo dei negoziati con le istituzioni di Bruxelles. Belgrado – nonostante fac-
cia parte del Consiglio d‘Europa dal 2003, nonostante aderisca al programma di Partenariato per la Pace (promosso
dalla NATO per assistere i processi di riforma in materia di difesa dei Paesi sorti dalla dissoluzione del blocco sovieti-
co) e nonostante abbia concluso nel 2008 l‘Accordo di Associazione e Stabilizzazione previsto per una futura inte-
grazione dei Paesi dei Balcani Occidentali (anche se è entrato in vigore nel dicembre 2009 dopo l‘abolizione dei visti
per i cittadini serbi ed è attualmente in ratifica dai Paesi membri) – ha ancora in sospeso numerose questioni di cui
dovrà dare prova di maturità, a cominciare dalle sue relazioni esterne.
Alla fine del 2010, pur continuando a non riconoscerne l‘indipendenza, la Serbia ha accettato di aprire i negoziati con
il Kosovo e ha avviato i primi colloqui nei primi giorni di marzo di fronte ad alcuni rappresentanti dell‘Unione Europea.
Tuttavia, Tadic ha già avvisato la Polonia – che, tra l‘altro, si appresta a detenere per la prima volta il semestre di
presidenza dell‘UE – che non presenzierà al Summit dei Paesi dell‘Europa Centrale e Sudorientale che si svolgerà
nei prossimi giorni a Varsavia, poiché tra gli invitati risulta la neo-Presidentessa kosovara, Atifete Jahjaga, e che si
presenterà come Capo di Stato, alla pari, dunque, degli altri colleghi. Inoltre, come già fatto presente dal Parlamento
europeo nel corso della seduta del 19 gennaio, la Serbia avrà il compito di facilitare la cooperazione tra la missione
di polizia dell‘Unione Europea in Kosovo, EULEX, e serbi del Kosovo che risiedono nella parte settentrionale della
Repubblica che aspira all‘indipendenza; non di meno, Bruxelles, ha esortato Belgrado a smantellare le strutture pa-
rallele serbe in Kosovo, con riferimento alla regione di Mitrovica su cui Pristina non ha il controllo, poiché minano il
processo di decentramento ed impediscono la piena integrazione della comunità serba nelle istituzioni kosovare.
L‘Unione Europea sta molto premendo per una rapida riconciliazione dei rapporti fra i due Paesi, innanzitutto per le
potenzialità che una piena integrazione dei Balcani occidentali può offrire dal punto di vista economico e strategico: il
Corridoio 10 Lubiana-Belgrado-Nis-Sofia e Nis-Salonicco, più rapido del 4 che attraversa Ungheria e Romania e del
Corridoio 8 che mette in collegamento l‘Albania con la Romania passando attraverso il Kosovo, è la strada più breve
tra l‘Europa e il Medio Oriente. A ciò bisogna aggiungere l‘importanza rivestita dal Danubio che collega il Reno e il
Meno con il Mar Nero e dalla valle del fiume Morava che mette in collegamento il Nord europeo con la Grecia e, dun-
que, con il Mediterraneo. Non bisogna dimenticare nemmeno l‘importanza che la Serbia potrebbe assumere nei piani
di sicurezza energetica e l‘eventuale creazione di corridoi energetici tra Est Europa e Russia. E in relazione a questi
rapporti con la Russia, l‘integrazione della Serbia comporterebbe anche importanti effetti politici. Ne è un esempio la
NATO, che sarebbe disposta ad accogliere la Serbia nel proprio sistema pur di strapparla all‘influenza del Cremlino.
Tuttavia, per quanto Belgrado si dimostri dialogante, sembra ancora non intenzionata a rompere il cordone ombelica-
le con Mosca, né la Russia pare essere disposta a rinunciare al rapporto con un Paese che la proietta direttamente
verso l‘Europa Occidentale e il Mediterraneo.
Tra l‘altro il governo deve fare i conti con una parte dell‘opinione pubblica ultranazionalista, che ha parlato
dell‘arresto di Mladic come colpo gravissimo agli interessi nazionali della Serbia e che ha accusato Tadic di
―tradimento‖. Un atteggiamento già visto nel 2008 in occasione dell‘altro arresto eccellente di Karadzic. A ciò va ag-
giunto il fatto che altre larghe parti del Paesi ritengono che il Tribunale dell‘Aja sia tutt‘altro che imparziale. Tutto ciò
potrebbe quindi costituire una pericolosa spina nel fianco del Presidente nelle prossime consultazioni elettorali.
Il Parlamento Europeo ha in secondo luogo osservato che la corruzione è ancora diffusa nel Paese, evidenziando in
particolare il problema dei traffici illegali (provenienti soprattutto dal Sud-Est asiatico), i cui proventi vengono utilizzati
per alimentare le reti criminali. Il Parlamento ha richiamato anche l‘attenzione sul fatto che i funzionari detengono più
di un ufficio, il che comporta situazioni di pericolosi conflitti di interessi e altri casi di corruzione. Oltre alle grandi ri-
forme interne necessarie e all‘adeguamento all‘aquis comunitario, il Parlamento europeo ha sottolineato la necessità
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di migliorare l‘accesso all‘istruzione nella loro lingua originaria, così come all‘informazione, per le minoranze bosnia-
che, bulgare e rumene. A preoccupare è, soprattutto, la situazione dei rom (circa 400mila), che vivono in condizioni
di estrema povertà: solo il 5% di essi ha un lavoro a tempo determinato. Discorso analogo può esser fatto anche per
la libertà religiosa che, pur non essendo un criterio stringente per l‘ingresso nell‘UE, è certamente un parametro fon-
damentale per il rispetto dei diritti umani.
Prima di tirare le conclusioni sul futuro europeo della Serbia bisognerà dunque attendere il 10 ottobre prossimo,
quando la Commissione europea si pronuncerà sulla richiesta di candidatura ufficiale (avanzata per la prima volta,
peraltro, nel 2009). Il Commissario per l‘Allargamento, Stefan Fule, ha già fatto intendere che la strada dell‘ex Paese
jugoslavo è ancora lunga. Del resto manca ancora un criminale latitante da catturare: Goran Hadzic, serbo di Croa-
zia, persecutore dei croati in Slavonia durante la guerra dei Balcani. E se si pensa che un Paese meno problematico
come la Croazia ha dovuto rinviare il completamento del processo di adesione iniziato otto anni fa orsono (sembra
che la conclusione sia ora prevista per il 2013), la strada per Belgrado sembra profilarsi decisamente tortuosa.
La vera corsa alle presidenziali non è ancora partita, ma il presidente statunitense già corre ai ripari: ―Intendo chiede-
re al Ministero degli Interni – ha detto Obama- di concedere ogni anno nuove licenze per sfruttare le riserve nazionali
di petrolio in Alaska, rispettando le aree sensibili, ma anche di accelerare la valutazione delle risorse petrolifere e di
gas nell‘Atlantico centrale e del Sud‖.
In un momento in cui l‘uscente presidente si deve confrontare con sondaggi non troppo lusinghieri nei suoi confronti,
iniziare subito a ―sparare qualche buona cartuccia‖ è essenziale se vuole puntare alla rielezione.
Non è bastato il famoso blitz contro il nemico pubblico n. 1 Osama bin Laden, blitz del quale per altro ancora non è
stata chiarita in toto la modalità, né sono state mostrate le tanto attese foto del cadavere, per far risalire i consensi
del presidente. Si potrebbe ben scommettere che le immagini, se mai verranno mostrate, saranno l‘asso nella mani-
ca per Obama? Dopotutto, i sondaggi hanno riscontrato una sua crescita di popolarità fra i cittadini dopo l‘annuncio
dell‘uccisione del capo di al-Qaeda.
Non è neanche bastata la notizia che Osama avesse nel suo nascondiglio numerosi filmati a sfondo pornografico
(come se questo implicasse un doveroso giudizio morale di sorta, connotando ancora più negativamente la sua figu-
ra), per rassicurare il presidente nordamericano sul suo futuro politico. L‘argomento economia sembra, dunque, pe-
sare molto di più di quello del terrorismo sulla campagna per le presidenziali del 2012.
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Asia
Domanda: In generale, come pensa stiano andando le cose per gli Stati Uniti in Afghanistan? [molto bene,moderatamente bene (i n verde scuro) -
molto male; moderatamente male (in verde chiaro)]
Questo pronto superamento della linea verde scura su quella verde chiara, cosa che non accadeva da metà 2009,
potrebbe essere un efetto immediato dell'operazione segreta autorizzata da Obama sul suolo pakistano. Il cd.
"effetto Bin Laden". E questo effetto potrebbe essere molto interessante alla luce delle prossime presidenziali del
2012.
Un altro dato sembra essere ancora più interessante. Un secondo sondaggio della Gallup chiedeva ad un campione
di americani: "Secondo voi, la missione degli americani in Afghanistan è terminata e quindi si possono riportare a
casa le truppe, oppure c'é ancora lavoro da svolgere?". Su questa domanda, gli intervistati sono stati divisi per ap-
partenenza politica. Questi i risultati:
A livello macroscopico, la percentuale di americani che vuole "far tornare a casa i ragazzi" è decisamente superiore
a quella dei favorevoli ad un prolungamento della missione. Il dato che reputo più significativo è il sostanzia-
le pareggio percentuale in seno all'elettorato repubblicano. Sarà un eventuale punto di frattura del partito repubblica-
no nella prossima campagna elettorale?
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Geografia e Geopolitica
Uno sguardo politico sugli spazi verdi di Israele - di Prospettiva Internazionale - 09.02.2011
Quanto segue è una cernita di passaggi operata dal capitolo decimo del libro La pulizia etnica della Palestina del
Nuovo Storico israeliano Ilan Pappe. L'estratto riguarda i parchi turistici del Jewish National Fund in Israele ed il loro
collegamento con il memoricidio della Nakba. Non potevo non inserire questo contributo nel ciclo di post "appunti
sulla geografia politica del conflitto israeliano-palestinese".
Per motivi legati al mantenimento della coerenza del testo riportato (sono estratti) ho tolto dai periodi qualche frase
cercando di non snaturare il significato reso dall'autore dell'opera; ho inoltre privato il testo di alcune parti che faceva-
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no espresso riferimento al sito del JNF perchè dalla data di pubblicazione del libro (2006) ad oggi il sito in questione
è stato aggiornato e modificato. Buona lettura.
In Israele e nel mondo ebraico il JNF è visto come un'agenzia ecologicamente molto responsabile che deve la sua
reputazione al modo in cui si dedica a piantare alberi, a reintrodurre la flora e i paesaggi locali, facilitando l'apertura
di decine di luoghi di villeggiatura e di parchi naturali, con aree da picnic e spazi gioco per i bambini.
Dopo il 1948 quando fu stabilito di creare propri parchi nazionali sui siti dei villaggi palestinesi distrutti, la decisione
su che cosa piantare fu completamente nelle mani del JNF che, nel tentativo di far apparire il Paese più europeo e
per promuovere l'industria del legno, optò sin dall'inizio principalmente per le conifere invece che per la flora naturale
indigena della Palestina. Ecco perché nelle foreste all'interno di Israele oggi vi siano solo l'11 per cento di essenze
indigene e perché soltanto il 10 per cento di tutte le foreste risalgono a prima del 1948.
Ma tali specie particolari mal si adattano al terreno locale e, nonostante i ripetuti trattamenti, le piante si ammalano,
capita che i pini si spacchino in due e in mezzo al tronco spuntino degli ulivi come reazione naturale ad una flora a-
liena.
La vera missione del JNF è stata quella di nascondere i resti visibili della Palestina, non solo piantando alberi, ma
anche tramite una cronaca che nega l'esistenza dei villaggi. Nei parchi viene mostrata la storia ufficiale sionista, con-
testualizzando ogni luogo dentro la metanarrazione nazionale del popolo ebraico e di Eretz Israel, sovrascrivendola
a quella delle popolazioni indigene. Nella home page del sito web ufficiale del JNF si legge che l'agenzia si è assun-
ta il compito di far fiorire il deserto e di rendere il paesaggio storico arabo simile a quello europeo. Quello che non
viene detto ai visitatori è che il Fondo è inoltre la principale agenzia che ha il compito di evitare in queste "foreste"
ogni atto commemorativo della Nakba, tanto meno le visite dei profughi palestinesi le cui case giacciono sepolte sot-
to questi alberi e luoghi turistici.
Quattro delle più grandi e frequentate aree da picnic che appaiono sul sito web del JNF - la foresta di Birya, il parco
di Ramat Menashe, gli spazi verdi di Gerusalemme e la foresta d Sataf - oggi riassumono tutte, meglio di ogni altro
spazio in Israele, sia la Nakba sia la sua negazione.
LA FORESTA DI BYRIA
Situata nella regione di Safad (distretto Nord) è la più grande foresta dovuta all'opera dell'uomo in Israele è molto
frequentata e nasconde le case e le terre di almeno sei villaggi palestinesi. Anche qui come in molti siti del JNF, i
bustans - frutteti che i contadini palestinesi piantavano attorno alle fattorie - vengono attribuiti alla natura e la storia
della Palestina viene riportata ad un passato biblico e talmudico. Il medesimo destino che tocca ad uno dei villaggi
più conosciuti, Ayin al-Zaytun, evacuato nel maggio del 1948 con il massacro di molti abitanti. Il nome di Ayin al-
Zatun è citato, ma sentite come:
Ein Zeitun è diventato uno dei luoghi di maggiore attrazione e divertimento perché offre ampi tavoli da picnic e par-
cheggi per disabili. E' situato sul vecchio insediamento di Ein Zeitun, dove gli ebrei hanno vissuto dai tempi medioe-
vali fino al XVIII secolo. Ci sono stati quattro tentativi falliti di insediamento ebraico. Il parcheggio ha gabinetti biolo-
gici e aree giochi. Vicino al parcheggio c'è un monumento in memoria dei soldati caduti nella Guerra dei Sei Giorni.
Mescolando in modo fantasioso storia e informazioni turistiche, il testo cancella completamente dalla memoria collet-
tiva la florida comunità palestinese che le truppe ebraiche spazzarono via in poche ore. La narrazione accompagna il
lettore nel suo viaggio nella foresta e lo riporta indietro ad una presunta città talmudica saltando un intero millennio di
villaggi e comunità palestinesi.
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IL PARCO DI RAMAT MENASHE
A sud di Birya si estende il parco Ramat Menashe. Ricopre le rovine di Lajjun, Mansi, Kafrayn, Butaymat, Hubeiza,
Daliyat al-Rawha, Sabbarin, Burayka, Sindiyana e Umm al-Zinat. Proprio al centro del parco si sono i resti del villag-
gio distrutto di Daliyat al-Rawha ora ricoperto dal kibbutz Rabat Menashe e sono ancora visibili le rovine delle case
fatte esplodere del villaggio Kafrayn.
Il tour nel parco guida dolcemente il visitatore da un punto all'altro, e tutti hanno nomi arabi: sono i nomi dei villaggi
distrutti, ma qui sono presentati come luoghi naturali o geografici che non tradiscono alcuna precedente presenza
umana. La ragione per cui ci si sposta così facilmente da un punto all'altro viene attribuita dal JNF a una rete di stra-
de che furono lastricate nel "periodo inglese". Ma perché gli inglesi si preoccuparonoinformazioni che il JNF fornisce.
Alessandro Badella
Eleonora Peruccacci
Pier Francesco Prata
http://blogloball.blogspot.com
http://risikoblog.org
http://prospettivainternazionale.blogspot.com