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IL QUATTROCENTO

X. La letteratura in volgare
Il Quattrocento umanista (sec. XV) rlportJn auge l'uso della lingua latina classica con particolare riferimento al modello ciceroniano e molti letterati espressero chiaramente un certo disprezzo per i grandi Trecentisti che avevano scritto in volgare. Qualcuno- arriv al punto di definire Dante "poeta da ciabattini e da fornai". Ma non mancarono voci di dissenso nei confronti di un

tale atteggiamento, di una tendenza che appariva gi allora anacronistica,


antistorica. Ci fu chi, come Leonardo Bruni, ammise la superiorit del volgare sul latino e chi, come Leon Battista Alberti, riconobbe la grandezza della lingua latina ma non la sua superiorit sul volgare. Anzi l'Alberti promosse, nel 1441, un concorso pubblico di poesia in volgare sul tema della "vera amicizia". A questo concorso parteciparono numerosi poeti, ma a nessuno fu decretata la vittoria ed assegnato il premio (una corona d'alloro in argento, da cui il nome di "certame coronano" dato al concorso). Tuttavia l'invito a poetare in volgare incontr il favore di tanti letterati,sicch nella seconda met del secolo ci fu un vero e proprio trionfo del volgare,che fu adottato dalle personalit letterarrie di maggior rilievo: Lorenzo de' Medici, Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo, Angelo Poliziano e Jacopo Sannazaro

L'Umanesimo La tendenza dominante soprattutto nella prlma met del Cinquecento fu un : 'costante anelito degli uomini verso i pi alti gradi della perfezione in ogni campo di attivit e la consapevolezza d'avere gli antichi raggiunti vette insuperabili per l'uomo moderno. Di qui l'ammirazione per gli antichi e, da un lato, la risoluzione di imitarli, per avvicinarsi il pi possibile ai loro risultati, dall'altro, la volont di codificare in norme precise i termini delle azioni umane. Nel 1536 un professore dell'universit di Pisa, Francesco Robortello, tradusse in italiano e comment in latino la "Poetica" di Aristotele. Di conseguenza, un po' per l'autorit del sommo filosofo, ancora di pi per la necessit di trovare norme sicure di esttca, rtori e poeti si accanirono su quel testo per desumere concetti e regole d'arte. Le discussioni furono varie, lunghe, sterili e sono ancora un esempio di come in Italia i letterati si siano sempre,per la maggior parte, isolati dai reali problemi del Paese, pur senza mai rinunziare alla pretesa di essere loro la guida spirituale della nazione. Nacque cos] l'aristotelismo, che una particolare interpretazione del pensiero aristotelico, il quale, nella sua originalit, venne sovente frainteso ed impoverito. \. Aristotele aveva studiato la natura dell'arte e, pur senza riconoscere apertamente l'autonomia, l'aveva comunque staccata dalla filosofia. Per lui l'arte ha il compito di rappresentare non il vero oggettivo (compito della storia), ma il verosimile, e possiede la qualit di attivit liberatrice delle passioni umane; cio catrtlca/ tn quanto induce l'uomo (autore, spettatore o lettore) ad oggettivare le proprie passioni in quelle dei personaggi

rappresentati ed a superarli mediante la catastrofe con cui questi li portano a compimento. I rtori del Cinquecento, invece interpretando la catarsi aristotelica non come qualit intrinseca dell'arte, ma come suo fine, deducono un'interpretazione pedagogica dell'arte e ne attribuiscono la paternit ad Aristotele. Aggiungono, inoltre, che se l'arte deve educare, non pu farlo altrimenti che instillando la verit negli uomini. Il che equivale a riconoscere l'attivit poetica assai vicina a quella filosofica. C' chi, anzi, identifica il poeta col filosofo. Ad esempio Scipione Ammirato, nel suo dialogo "Il Dedalione overo

del poeta", dice testualmente "Non meraviglia, ma immaginati che s come un'anima quella che nutrisce e d l'aumento ed il moto, e la medesima
quella che d il sentimento, e la stessa quella che fa il discorso, cos lo stesso filosofo quello che contempla e quello che opera, il medesimo quello che usa la rettortca, la logica e la poetica, se ben in pi e diversi modi si va distinguendo e partendo". Qui esplicitamente dichiarato che spetta al poeta-filosofo il compito di trasmettere la verit al popolo: ma quale verit se il poeta moderno, come vedremo, deve scegliersi un modello da imitare tra quegli antichi che fecero le proprie esperienze d'arte in condizioni storiche ben diverse da quelle dell'Italia del Cinquecento? A quale popolo se il letterato moderno non sa usare che un linguaggio adatto ad orecchie ben esercitate? Aristotele aveva anche affermato che l'arte imitazione della natura da cui solo pu ricavarsi il verosimi1e, ma i retori del Cinquecento preferiscono ammettere che ci andava bene per l'epoca di Aristotele, mentre per l'uomo moderno, che possiede tanti esemplari perfetti di artisti antichi, molto pi utile imitare questi. A ci, evidentemente, si perveniva sempre sotto lo stimolo di quel complesso di inferiorit che si aveva per gli antichi, ma anche perch Aristotele, nell'elencare certe opere classiche, che giudicava assai positivamente e che distingueva per gruppi secondo certi valori formali intrinseci edestrinseci, sembrava voler indicare i modelli da seguire ele norme precise dei vari generi letterari. Sembrava, ma chiaro che Aristotele s'era limitato ad una analisi critica delle opere esistenti senza minimamente pensare a volerne trarre una dettagliata normativa. Sta di fatto che i retori del Cinquecento, sempre riferendosi ad Aristotele ma in realt operando molto liberamente, stabilirono dei veri e propri codici relativamente ai singoli generi letterari e ne prescrissero, con la forza della loro autorit, il pi rigoroso rispetto (vedi nota). Tutto questo, evidente, se da un lato giov al concetto che l'opera d'arte debba essere una creazione organicamente coerente, molto avvil, d'altro lato, la libert fantastica e l'autonomia dell'arte, accentuando inoltre il distacco gi esistente fra letteratura e popolo. E tanto pi nefasta fu la sua influenza negativa in quanto al Rinascimento segu "et della Controriforma, che esasper il rigore restrittivo di quella poetica per tenere pi agevolmente asservita l'attivit artistica al suo programma di rinnovamento. NOTA: Tra le "regole" famosa quella, relativa alla tragedia, delle "tre unit~n,

di azione (l'opera deve narrare una sola vicenda), di (luogo (una deve
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essere la scena) e di tempo (la vicenda deve esaurirsi in un giorno )i

regola che fu spesso, ancora pi arbitrariamente, estesa alle opere


epiche. Lorenzo De' Medici Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico, nacque a Firenze nel 1449. Fu innanzi tutto un brillante uomo- politico: a lui si deve in gran parte quel trentennio di pace che si ebbe in Italia e che cess poco dopo la' sua morte, avvenuta nel 1492, quell'equilibrio fra i vari Stati della penisola sapientemente orchestrato dalla sua azione dinamica e geniale. Fu per anche amante dell'arte e della cultura e generoso mecenate dei maqqlorl artisti del tempo, egli stesso dedicandosi alla composlzlone di numerose opere letterarie di varia natura, testimonianze di una non comune versatilit e di una eccezionale capacit di assimilazione. Sono infatti attribuite a lui opere di varia ispirazione e di derivazione letteraria dalle pi disparate fonti, il che, se da un lato attesta una certa superficialit del sentimento ed una certa disinvoltura nei confronti della cultura umanistica, anche indice di una disponibilit attenta e cordiale ai molteplici valori della vita e di un'apertura n compiacente n distaccata verso la sfera popolare. D'altra parte l'ambiente culturale di Firenze, che gravitava attorno ad un'arstocraza di estrazione borghese, era forse l'unico in Italia non disattento alle varie manifestazioni della vita popolare. Delle sue opere.rientrano nel gusto umanistico le "Selve d'Amore", l' "Ambra" e le "Egloghe" (famosa quella, in terzine dantesche, che riporta Lamenti delpastore Corinto non corrisposto in amore dalla ninfa Galatea). Allo spirito religioso popolare si richiamano invece le "Laude", i "Capitoli religiosi" (con cui Lorenzo d una parafrasi di alcuni testi biblici) e la sacra rappresentazione di "S.Giovanni e Paolo". Una vena pi schietta di poesia per dato di cogliere nelle "Canzoni a ballo", nei "Cant carnascialeschi" e nei "Trionfi" (celebre quello di Bacco e Arianna), con cui il Magnifico si accosta all'atmosfera godereccia e spensierata in cui il popolo festeggia collettivamente il carnevale; e nei poemetti "La caccia col falcone" e la "Nencia da Barberino", in cui scorre un umorismo sottile, non privo di accenti maliziosi che tradiscono l'atteggiamento disincantato del Poeta di fronte alla materia del suo canto. Luigi Pulci Luigi Pulci nacque a Firenze nel 1432 da famiglia nobile ma di scarse risorse economiche. Amico intimo di Lorenzo il Magnifico, ne frequent la casa avendone protezione e sovvenzioni, in cambio di una fraterna devozione, che non venne meno neppure quando, verso gli ultimi anni di vita, lasci Firenze per passare al servizio di Roberto Sanseverino.Mor a Padova nel 1484. Non ebbe vasta cultura, ma fu sempre attento e cordiale scrutatore dell'animo umano, assai meno superficiale di quanto potrebbe apparire a chi volesse
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ridurne la personalit ad uno spirito bizzarro dalle mille trovate scanzonate e stravaganti. Scorre infatti, tra le pagine della sua opera maggiore, il "Morgante", una vena di umanit limpida, sincera, di quelle che sgorgano spontaneamente, che non sono frutto di una lunga e tormentosa macerazione-dialettica, ma dell'i8:into e basta e che, perci, non hanno l'impegno eroico di combattere una battaglia, di onorare un vessillo, di affrontare un martirio, ma semplicemente il desiderio di discorrere con gli uomini delle cose degli uomini, con simpatia, qualche risata non maligna, qualche momento di malinconia senza dramma. Essendo tale la disposizione del Pulci, il tono del suo libro non poteva che essere sostanzialmente comico, tinteggiato qua e l di note commosse e pensose. Il "Morgante", che fu composto su suggerimento di Lucrezia Tornabuoni, madre del Magnifico, a partire dal 1460, certamente un'opera geniale, ma frammentaria. Esso non nacque dalla sollecitazione di una profonda ispirazione n ebbe mai un disegno organico nella mente dell' autore. Fu anzi iniziato di malavoglia dal Pulci che, per i primi canti, si limit a seguire pedissequamente, ma vivacizzandola ed adeguandola al suo temperamento, la materia di un rozzo cantare popolaresco dello stesso secolo, l' "Orlando". In seguito il Poeta si and sempre pi affezionando a quella materia e ne svilupp la trama in manlera pi libera, tn tono pi spiccatamente originale, insomma con una personale e pi autentica partecipazione. Nel 1470 il Pulci diede alle stampe i primi 23 canti dell'opera, che, completa degli ultimi S, usc a Firenze nel 1483. Il poema erocornco narra le avventura del paladino Orlando, dopo che questi ha abbandonato il suo signore, il re Carlo Magno, che lo ha in sospetto per le calunnie di Gano di Maganza. Nel suo girovagare, Orlando giunge ad un convento assediato da tre giganti. Ne uccide due e converte al cristianesimo il terzo, Morgante, che gli sar poi fedele scudiero. Insieme affrontano un'infinit di traversie, aiutati anche da un mezzo gigante, Margutte, che divenuto amico di Morgante. Gli episodi pi divertenti sono proprio quelli che hanno come protagonisti Morgante e Margutte: il primo, grosso come una montagna ed armato di un battaglio di campana, sempre pronto alla rissa e sconquassa tutto quello che gli capita davanti; il secondo, spergiuro, ladro, miscredente, specialista nell'imbrogliare il prossimo al solo scopo di divertirsi. I due eroi troveranno una morte singolare: Margutte, che ha sempre fatto ridere gli altri con i suoi scherzi muore per il troppo ridere, avendo visto una scimmia che aveva calzato i suoi stivali; Morgante, che scrollava le torri con una spallata, muore per il morso di un granchiolino. ~AiiEO .Mia Maria Boiardo Matteo Maria Boiardo nacque a Scandiano, presso Reggio Emilia, da nobile e ricca famiglia, nel 1441. Non conobbe i disagi economici che assillarono il Pulci e pot ben dedicarsi per tutta la vita agli studi, alla caccia ed alle feste di

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palazzo, dividendo il tempo fra gli ozi del feudo di famiglia e quelli del palazzo ducale degli Estensi di Ferrara. Mor nella sua stessa citt natale nel 1494. La sua cultura, pur non ampia n profonda, ebbe l'impronta del usto umanistico che, insieme con i modi fini e gentili acquisiti dall'educazione aristocratica che gli fu impartita, confer quel tono di ricercato distacco nei confronti della materia della sua opera maggiore, l' "Orlando innamorato". Essa nasce tuttavia da una istintiva adesione al mondo cavalleresco, inteso come mondo di primitivi, ove la forza rude si mescola ad una certa ferinit del sentimento e determina, nell'opera, quell'atmosfera dominata da un non so che di selvatico. Sicch l'ispirazione si impoverisce nel complesso e solo a tratti balza fuori con la forza di un torrente in piena. Questa incapacit del Boiardo di .dar libero ascolto alla voce pi profonda del suo cuore provata dal fatto che la materia del suo poema, pur ess. sapientemente distribuita secondo un ordine organico e coerente, risulta v sempre frammentaria: perch l'ordine logico degli avvenimenti non corrisponde all'onda del sentimento, ma frutto di una esperta regia. L' "Orlando innamorato", iniziato forse nel 1476, si compone di tre parti: prime due - rispettivamente di 29 e 31 canti - furono pubblicate nel 1487; terza fu lasciata interrotta alla XXVI ottava del nono canto. L'argomento tratto dalla materia del ciclo carolingio, ma il tono con cui questa trattata piuttosto quello proprio dei romanzi bretoni. le la

Eccone in breve la trama: certo Magno ha bandito una grande giostra t~ per l'occasione convengono a Parigi oltre ventimila cavalieri fra cristiani e pagani. Mentre i guerrieri partecipano ad un banchetto offerto dall'imperatore, si presenta la bellissima Angelica, figlia del re del Catai, la quale sfida tutti i cavalieri a battersi col fratello Argala: quelli che saranno sconfitti dovranno accettare di divenire suoi schiavi, mentre l'eventuale vincitore l'otterr in sposa. Risulta vincitore il saraceno Ferraguto, ma Angelica, per sottrarsi all'impegno, fugge, inseguita da Orlando e Ranaldo. Durante la fU9a e l'inseguimento accade che Ranaldo beva alla fonte dell'odio mentre Angelica, avendo bevuto a quella dell'amore, si invaghisce follemente del paladino. POich Ranaldo si disinteressa di Angelica, tocca ad Orlando, innamorato non corrisposto, non solo di difendere la fanciulla dagli assalti di Agricane, ne dei Tartari, ma ancora di accompagnarla in Francia alla ricerca di Ranaldo" Qui infuria la lotta tra i cristiani e il re africano Agramante, che ha invaso il suolo francese aiutato dalle armi di Mandicardo, figlio di Agricane, di ROdomonte, re di Sarza, e di Marsilio, re di Spagna. Orlando prende parte alla guerra, mentre la situazione sentimentale tra Angelica e Ranaldo si capovolge, avendo la prima bevuto alla fonte dell'odio ed il secondo a quella dell'amore. Quindi Orlando e Ranaldo si scontrano in un duello per amore di Angelica, ma Carlo li separa, affida Angelica al vecchio Namo e promette di darla in sposa a quello dei due cugini che dar miglior prova nella guerra contro gli invasori. A questo punto il poema si interrompe. Ludovico Ariosto ne continuer il racconto in un'opera di ben altra fattura, nell' "Orlando Furioso".

Il Polizia no
Il Poliziano; soprannome di Angelo AMBROGINI, poeta e umanista italiano (Montepulciano [dal cui nome lat. Mons Politianus foggiato l'appellativo di Poliziano] 1454 - Firenze 1494). La tragica e precoce perdita del padre, ucciso per una vendetta, lo colp forse profondamente, bench egli non vi alluda mai nell'opera letteraria. Ebbe una natura sensibilissima e un vivo senso della precariet delle cose, dal quale cerc rimedio rifugiandosi nel mondo degli studi e in quello della bellezza. Venuto a Firenze fanciullo, si impose ben presto all'attenzione dei dotti per la straordinaria abilit nel maneggiare le lingu'e greca e latina e la capacit di poetare, oltre che nelle lingue antiche, nella moderna volgare. L'esperimento di traduzione dell'Iliade omerica in latino attir su di lui l'attenzione di Lorenzo de' Medici, che l'accolse nella sua casa come segretario privato (1473) e come precettore dei figli Piero e Giovanni (1475), garantendogli la sicurezza economica (il poeta, che aveva nel frattempo preso gli ordini sacri, ottenne nel 1477 per mezzo di Lorenzo la ricca priora di San Paolo) e consentendogli l'accesso alla Biblioteca medcea e la possibilit di frequentare i circoli culturali (da una parte il Fcino e gli ambienti neoplatonici, dall'altra il Landino e i filologi dello Studio, dall'altra ancora il Pulci e gli altri poeti in volgare). Il periodo trascorso in casa del Magnifico (14731478) anche quello di pi felice e brillante produzione poetica del Poliziano. In latino egli compose, con gusto finissimo, numerosi epigrammi, elegie e odi (esemplari, per la squisita imitazione di poeti come Ovidio, Stazio e Claudiano, l'epicedio per -Alblera degli Albizzi [1473] e la svtva in scabiem, 1475). In lingua volgare, adottata dal poeta anche per ,corrispondere at programma di rivalutazione della poesia volgare attuato da Lorenzo (e di cui fa fede la Raccolta aragonese, antologia di rime in volgare inviata da Lorenzo a Federico d'Aragona verso il 1476-1477, con un'epistola dedicatoria stesa' probabilmente proprio dal Potliziano), egli tocc il vertice delle sue capacit poetiche con il poemetto in ottave le Stanze cominiate per la giostra di Giuliano de' Medici nel 1475 e rimaste interrotte in sguito all'uccisione del protagonista nella congiura dei Pazzi (26 aprile 1478). La situazione drammatica in cui, in seguito a quel fatto di sange, vennero a trovarsi Lorenzo e il mondo politico e culturale fiorentino, fu causa per il Poliziano di grave turbamento e cre nella sua vita una profonda frattura. Sul piano letterario la crisi si manifest con la composizione di un'opera di contenuto politico, destinata alla propaganda medcea, il Pactianae coniurationis commentarium (1478), di un'opera comica di sfogo amaro e pungente, la raccolta di facezie Detti piacevoli (1477-1479) e di un'opera di meditazione severa, dedicata a Lorenzo, la traduzione in latino del Manuale di Epittto (1479). Sul piano biografico la crisi si manifest in un litigio clamoroso con la moglie di Lorenzo, Clarce Orsini, sui metodi di educazione dei figli, nella successiva rottura con lo stesso Lorenzo e nella partenza del poeta da Firenze nel dicembre 1479. Dopo varie peregrinazioni per l'Italia settentrionale e soggiorni a Mantova, dove il Poliziano compose probabilmente nel carnevale del 1480 l'Orfeo, "rappresentazione" profana in volgare, egli fu richiamato a Firenze da Lorenzo, non pi come segretario privato e membro della famiglia, ma come professore di eloquenza latina e greca nello Studio. Da allora si dedic quasi esclusivamente all'attivit di professore e filologo. Riluttante ormai a lasciare Firenze, pago di rifugiarsi nella 6

villetta di Fiesole e godere dell'amicizia del Fcino e del Pico, portato semmai a sfogarsi in rabbiose polemiche e litigi con i colleghi umanisti, il Poliziano si dedic a un'attivit erudita intensissima, compiacendosi di indagare le zone pi inconsuete del mondo classico o di riscoprire, negli anni pi tardi, l'Aristotele dell'Etica Nlcornacha e dell'Organon. Documenti dell'attivit erudita sono le lettere latine, le note a margine dei codici, gli zibaldoni per i corsi fiorentini e soprattutto i Miscellanea (1489), nei quali sono riuniti i frutti della sua vastissima erudizlone. Dopo il 1480 la poesia fiorisce solo come immagine riflessa dell'attivit filologica, raggiungendo vertici di alta raffinatezza in alcune rievocazioni in versi latini degli antichi poeti, le Sylvae, fra cui Manto (1482), il Rusticus (1483), l'Ambra (1485) e la splendida storia della poesia attraverso i secoli dei Nutricia (1486). Agli anni della maturit risalgono anche alcuni fra i pi preziosi degli epigrammi greci e forse (attivit anch'essa di tipo riflesso, "divertimento" filologico consistente nella raccolta dei "fiori" della poesia popolare) la composizione delle Canzoni a ballo, e dei Rispetti sia continuati sia spicciolati. Jacopo Sannazzaro Jacopo Sannazzaro nacque a Napoli nel 1456 e, tranne una breve parentesi in cui segu nell'esilio l'amico Federico II! d'Aragona, qui visse fino alla morte, avvenuta nei 1530.
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Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la fanciullezza e l'adolescenza a San Cipriano Pilcentino, portando poi a lungo in s la suggestione di quell'ambiente. Entrato nell'Accademia pontaniana, dove assunse lo pseudonimo di ACTIUS SYNCERUS,si leg d'amicizia col Pontano, che a lui intitol il dialogo Actius, sulla poesia. Fu colto umanista e poeta raffinato. Ci ha lasciato numerose opere in lnua latina ed in volgare. Fra le prime ricordiamo le "Bucoliche", di ispirazione virgiliana, le "Eclogae piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le "Elegiae" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis"; fra quelle in volgare citiamo i "Glimrnerl" ("gomitoli", filastrocche di proverbi napoletani), le "Farse" e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca). Ma il suo capolavoro, in volgare, l' "Arcadia", rappresentative della civilt e del gusto umanistici. una delle opere pi

E' un romanzo composto da 12 ecloghe precedute da altrettante prose, di ispirazione pastorale: narra le vicende del giovane Sincero (il poeta stesso), il quale, in seguito a una delusione d'amore, lascia Napoli e si trasferisce nell'Arcadia, ove trova una certa serenit d'animo condividendo la semplice vita dei pastori-poeti di quella regione. Ma un sogno terribile lo induce a tornare a Napoli, ove apprende della morte della sua amata. In effetti l'opera alquanto frammentaria ed eccessivamente infarcita di immagini tratte da opere classiche, ma contiene anche bellissime descrizioni di paesaggi ed esprime sinceramente il desiderio profondo del Poeta di pace e tranquillit e la sua

aspirazione (comune a tutti scomparso per sempre.

gli

umanisti)

di

un mondo

lontano

ormai

L'Arcadia inaugur il genere pastorale nella letteratura moderna italiana e straniera e fu considerato un modello esemplare di prosa poetica.

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