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Il manager, tra progetto ed equit

di Francesco Varanini All'inizio degli Anni Novanta lavoravo come manager. Dirigevo una azienda di piccole dimensioni, ma non minuscola, dodici o tredici milioni di lire di fatturato, ed un margine altissimo rispetto alla media del settore. Il settore, ora sono passati tanti anni, posso dirlo, e anche il nome dell'azienda. Era Cuore Corporation, la casa editrice del settimanale Cuore. Un settimanale che, oltre a garantire all'editore un notevole profitto, aveva un significato politico e sociale. Lo avrebbe anche oggi, se esistesse ancora. Se Cuore non esiste pi, se Cuore Corporation fall a met degli anni Novanta, fu -credo di poterlo dire- a causa di una cattiva conduzione dell'impresa. A causa dell'incapacit, direi ora, di 'vivere il progetto'. Per accidenti della storia, accidenti con i quali sempre dobbiamo confrontarci, Cuore aveva un padrone che era l'esatta incarnazione del padrone che prendeva in giro. Quel padrone mi aveva chiamato a dirigere l'impresa perch lavoravo con lui, in precedenza, in una grande casa editrice. Era il mio Capo. Ricorder sempre quella volta in cui, lavorando nella grande casa editrice, andai a presentargli i risultati di un progetto. Lavoravo a immaginare nuovi prodotti editoriali. Con un gruppo di giornalisti, tecnici, manager, avevamo elaborato alcune idee. Buone o cattive non so solo con il senno di poi lo si sarebbe potuto dire. Ma il progetto appunto questo: avere uno scopo, ragionare e lavorare tenendo conto dei vincoli, ma allo stesso tempo scommettere sul futuro, credere in ci che non c' ancora, fidarsi di una visione, di un sogno. E dunque, andai dal mio Capo con i miei materiali, il concept, il business plan, tabelle di sintesi. Non ebbi neanche modo di arrivare a mostrare quei crudi dati. "Ma come, vuole dirmi che questa cosa non l'hanno fatta negli Stati Uniti, e neanche in Inghilterra, in Francia o Germania?". "No, non l'hanno fatta in nessuno di questi paesi. Ma appunto, lei mi aveva incaricato di progettare qualcosa di nuovo...". E lui: "Ma scusi, non ci sono riusciti negli altri paesi, vuole che ci riusciamo noi?". Ecco cos pensava il mio Capo. Che pure in qualche modo mi stimava; altrimenti non mi avrebbe portato a dirigere Cuore. Ma il suo vizio d'origine di manager cresciuto alla scuola del largo consumo - o forse meglio, il suo stesso carattere, il tipo di intelligenza che guidava la sua azione, non erano cambiati. Mentre era Padrone di Cuore, quel manager era anche presidente di una importante casa editrice di periodici, prevalentemente rivolti al pubblico femminile e legati al mondo della moda. Cosa insegna il marketing di prodotti di largo consumo - o almeno: un certo marketing dei prodotti di largo consumo: insegna che i prodotti sono indifferenziati, commodities - i detersivi, si dice, sono alla fin fine tutti uguali, ci che fa la differenza l'apparenza: la confezione, la pubblicit. E cos anche nel mercato dei periodici femminili cosa si fa: se un prodotto cala anche leivemente le vendite, si fa un restyling, si cambia un po' la grafica. Si pensa ad una clientela fatta di persone disattente, superficiali, disinteressate al prodotto, incapaci in fondo di distinguere il nostro prodotto da un prodotto simile. Ora, il fatto che Cuore era un prodotto diverso. Di fatto, aveva aperto un nuovo mercato. Non aveva concorrenti, era diverso da ogni altro. E il suo pubblico non era fatto da lettori indifferenziati, ma al contrario da lettore fedelissimi, che si identificavano nella rivista. Cuore, dopo due anni dal lancio, aveva -almeno per il momento- cessato la crescita. Le vendite, comunque, si erano stabilizzate su un numero di copie che era il doppio del numero richiesto per garantire il break even. Ma il mio Capo viveva totalmente immerso nella mentalit neoliberista che vuole tutto misurato dal profitto, e che ritiene possibile e auspicabile una crescita costante. Non voleva accettare l'idea che le cose andavano bene cos. I prodotti, i servizi, le imprese, sono 'organismi viventi': non serve, ed anzi dannoso drogarli con estrogeni, curarli come fa il medico che applica il protocollo a prescindere dalla persona che ho di fronte. Questo, per, quello che penso io. Il mio Capo era di di opinione diversa. E cos, mio malgrado, volle iniziare una serie di operazioni tese al rilancio. Operazioni che per, come temevo, oltre a comportare notevoli costi, peggiorando immediatamente il conto economico, stravolsero 1

progressivamente l'immagine di Cuore. Invece di garantire nuovi lettori, l'operazione ebbe l'effetto di erodere rapidamente il patrimonio di fiducia che legava i lettori alla rivista. Si sentirono, credo, traditi. Il progetto li coinvolgeva. Sentivano la rivista come qualcosa che apparteneva anche a loro. A ben guardare, sempre cos: un'azienda non vive se uno dei qualsiasi dei soggetti che ha qualsiasi titolo ha a che fare con lei -si dice: portatori di interessi, o per via della solita moda di usare parole inglesi, stakeholder- un'azienda non pu vivere bene se uno dei qualsiasi dei soggetti che ha qualsiasi titolo ha a che fare con lei si sente tradito. Ricordo quei giorni come i pi difficili, i pi dolorosi, della mia carriera di manager. Cercai di sostenere la mia idea cercando alleanze, cercai di spiegare il rischio al direttore e ai giornalisti. Ma non riuscii ad essere abbastanza convincente. Finch, considerandomi ormai un elemento di disturbo, il mio Capo mi licenzi. In un certo senso speravo di non avere ragione, averei voluto che Cuore continuasse ad esistere, e vorrei che Cuore esistesse ancora. Ma dopo due o tre anni Cuore fall. Dallautobiografia al progetto Vi parlo di quest'esperienza perch credo che ognuno di voi che leggete abbia vissuto esperienze simili. C' il dolore, la ferita alla propria identit, al proprio orgoglio. Il senso di ingiustizia. E una domanda che resta aperta: perch i manager finiscono non tanto di rado per far del male a se stessi e all'azienda per cui lavorano? Credo che tutto questo abbia a che fare con l'idea di progetto. Progetto individuale, progetto condiviso. Voglio dirvi che innanzitutto, di fronte a queste situazioni, abbiamo il dovere di curare noi stessi. Farsi una ragione di quello che successo. Non perdere, anzi, se possibile, aumentare l'autostima. In questo mi ha aiutato un'arte che credo di possedere: la scrittura. Cos ho descritto quel manager -e pi in genere: a un certo tipo di manger- in una poesia, che mi hanno aiutato a fissare quell'esperienza; mi ha aiutato a ricordarla e allo stesso tempo a prenderne le distanze. Vi cito qualche verso: Ho visto lampi dira contratta dietro gli occhiali doro di uomini marketing assurti passo dopo passo ai vertici aziendali ho visto le loro mani curate incapaci di stringere mani e le loro dita serrate fino al bianco delle nocche attorno a penne Montblanc (...) li ho visti in ufficio chiusi gi di prima mattina lontani dal prodotto e dalla fabbrica ma con il telefono in mano e lelenco di persone da cazziare li ho visti agire solo per non fermarsi a capire li ho visti fare e disfare pur di non fermarsi mai a pensare 2

(...) costretti ancora da se stessi alla fatica vana di vivere dietro gli occhiali doro con disperata applicazione, il tempo riga dopo riga dellagenda. Detto questo, posso passare a parlarvi di progetto. Nel farlo, user ancora la chiave autobiografica. Il nostro modo di essere manager, e pi in generale lavoratori, si nutre molto di pi della nostra storia di vita che di modelli astratti, di 'idee' che descrivono il ruolo del manager come 'dovrebbe essere'. Le tre o quattro cose tecniche che servono per 'fare il manager' le possiamo ben imparare, anche l c' del buono, naturalmente, la inestimabile ricchezza della nostra storia personale conta di pi, molto di pi. Ma la nostra storia personale, questa un qualcosa di impagabile, irrinunciabile. Eppure, lavorando come manager, rischiamo passo dopo passo di metterla tra parentesi. Parlare di progetto vuol dire anche questo: non si tratta di far nostra una qualche teoria sul 'come si fa a lavorare per progetti', si tratta invece di portare -nel lavoro, nel tendere a uno scopo utile per l'organizzazione, per l'azienda- il nostro personale modo di rapportarci con il futuro, con ci che non c' ancora, ma che potrebbe esserci, se ci crediamo. Il futuro ha a che fare con l'esserci. L'essere nella situazione, vivere pienamente il presente. Il latino futurus, un participio futuro. A differenza di altre lingue, in italiano il participio futuro non esiste. Per averne lidea, dobbiamo ricordare parole che sono versioni italiane di participi futuri latini: nascituro: che nascer; venturo: che verr. Futurus significa quindi: che sar, che per essere. Progettare tendere allo scopo. Mosso dal desiderio, dal sogno, dalla speranza, guardo al futuro. Guardo con i miei occhi. Ma, sempre, il mio sguardo forgiato dall'esperienza e dalla memoria. Ricordo che da bambino vivevo a Pisa. Noi italiani siamo diversi dagli abitanti di altri paesi anche per questo: abbiamo vissuto e viviamo in citt d'arte, abbiamo sotto gli occhi in ogni istante questa bellezza che per gli abitanti di altri paesi e conoscibile solo attraverso immagini e narrazioni altrui. Per noi non si tratta di un museo, ma della vita. E' ci che quotidianamente abbiamo sotto gli occhi: possiamo pensare bei prodotti e bei servizi anche per questo. Dovremmo ricordarcene quando ci confrontiamo con manager di altri paesi, o quando qualcuno da noi si vanta di aver reso le nostre scuole di formazione, i nostri master, sempre pi simili a scuole di formazione e master statunitensi, o uniformate a livello globale. Perci io coltivo il ricordo della Torre di Pisa. La vedevo da bambino come qualcosa di quotidiano, di normale, ed allo stesso tempo come qualcosa di eccezionale, unico al mondo. L'immagine del luogo, del suo valore simbolico, si salda e si rafforza per via di ricordi personali. Ricordo per esempio come un evento favoloso la carovana di autobus arrivati dall'Ungheria, nel 1956, gli autobus schierati in fila uno accanto all'altro a lato della torre. E poi ricordo alcune di queste persone arrivate da lontano, scampate a circostanze drammatiche, a casa di mio nonno conversavano con lui in latino. Ognuno di noi ha nella memoria storie simili. Solo a partire da questi ricordi possiamo costruire solidamente la nostra professionalit, il nostro modo di lavorare, il nostro modo di progettare. Ho scritto 'solidamente': mi viene in mente ora che la torre di Pisa, intesa come metafora, ci parla anche di come sia ambigua questa 'solidit'. Possiamo essere 'solidi' solo se accettiamo le nostre debolezze. Storia di una torre e di un progetto Nel 1063, quando la citt primeggiava nel mondo cristiano per potenza politica e militare, per prosperit economica e per produzione culturale, i pisani decisero di dar inizio alla costruzione del nuovo Duomo. Iscrizioni murate nella facciata lodano larchitetto Buscheto, sepolto in un sarcofago 3

romano rilavorato, facente parte della stessa facciata. Buscheto esaltato come superiore a Ulisse e Dedalo, non solo per la sua pura arte, ma per la sua attitudine al progetto: viene specialmente lodata la perizia con cui seppe provvedere al trasporto per mare e per terra delle enormi colonne, ovviando anche alle imboscate genovesi e saracene. Non a caso la lode a Buscheto culmina nel nel verso: Non habet exemplum niveo de marmore templum, non ha prototipo n paragone questo tempio di marmo candido. Si sta parlando qui delleccezionalit dellopera, che imponendo un proprio stile, romanico pisano, vuole emulare le grandi architetture della Roma imperiale e dellIslam, e che compete, per proporzioni e complessit, con i massimi templi della cristianit, la prima basilica di San Pietro, Santa Sofia di Costantinopoli. Ma si sta parlando, anche, di un aspetto essenziale di ogni progetto: del progetto, di ogni progetto, non habet exemplum. Ogni progetto un unicum, uguale solo a se stesso, un prototipo, un capolavoro. Nel 1118 il Duomo consacrato. Nel 1152 iniziano i lavori del Battistero. Anche qui, fortunosi viaggi per mare, difficile trasportare le grandi colonne monolitiche di granito impiegate nella costruzione. Interessante per noi il coinvolgimento dei portatori di interessi, che sono in fondo tutti i pisani. Cos, narrano le cronache, nel 1163 istituita la tassa mensile di un denaro per nucleo familiare, e per la messa in opera delle colonne sono organizzate corves nei quartieri. Finalmente, il 9 agosto 1173 viene posato il primarium lapidem, la prima pietra del Campanile. Dopo una decina di anni, quando la costruzione giunta a circa un metro e mezzo del terzo ripiano, si costretti a sospendere il lavoro. La torre, a causa del terreno instabile e acquitrinoso, si inclinata paurosamente, nonostante le correzioni della pendenza messe in atto in corso dopera. Si decide per una mesta soluzione: la torre mozza ed inclinata coperta con una cupoletta, l vengono montate le campane. Devono passare cinquantanni prima che, constatato che il troncone saldo, e che laffondamento non si aggrava, si prenda in considerazione la possibilit di riaprire il cantiere. I lavori riprendono, probabilmente tra il 1272 e il il 1275. Ma linclinazione, sebbene in modo discontinuo, si accresce. Cos ancora una volta, di nuovo dopo una decina di anni di lavoro, giunti ora al quinto ripiano -nonostante la cura posta nel controbilanciare la pendenza con scelte statiche che sfruttano al massimo le tecnologie disponibili-, si costretti ad una soluzione di ripiego: si trova a quel livello una collocazione per le campane, e si sospendono i lavori. La leggenda, pi che la storia, vuole che questo avvenga nellanno pi infausto per la storia di Pisa. Il 6 agosto 1284 la Repubblica pisana sconfitta dalla rivale Repubblica di Genova nella battaglia della Meloria (bassi scogli al largo di Livorno). Non fu solo la perdita di 49 galere, non furono solo i seimila morti, gli oltre diecimila prigionieri. Fu per Pisa linizio del declino. Eppure i lavori in piazza del Duomo proseguono. Nel 1277 erano state poste le fondamenta dellultimo edificio della mirabile piazza, il Camposanto. Ma per una nuova apertura del cantiere della Torre si deve attendere ancora. Le fonti, lacunose, spingono a datare lultima ripresa attorno al 1370, giusto duecentanni dopo linizio dei lavori, e centanni dopo il secondo ciclo. Una sesta loggia si aggiunge alle cinque gi edificate. E sopra la sesta loggia, con evidente funzione di elemento terminale della costruzione, la cella campanaria. La correzione della pendenza, gi presente nel sesto ripiano, sensibilissima nella cella. Conosciamo i nomi dei primi progettisti e costruttori degli altri tre edifici:il Duomo, il Battistero, il Camposanto, ma del Campanile no. N una iscrizione sulledificio, n un documento degli storici locali ci d notizia certa del nome. Dobbiamo ragionevolmente attribuire questo silenzio alla vergogna o alla censura, sempre conseguenze di quello che fu inteso come un grave infortunio tecnico: la torre che si inclina, il progetto realizzato che fatalmente si allontana dal progetto pensato a priori. Nel 1800 vengono effettuati dei lavori che riportarono alla luce parte del basamento interrato. Fu un grave errore che alter la stabilit della torre, accelerandone il processo di inclinazione. Cos, tra il 1990 al 2001, aperto un nuovo cantiere. Ancora una volta, le pi avanzate tecnologie dellepoca 4

sono adottate per mantenere in piedi ledificio, nonostante linclinazione. Lo spostamento laterale dallasse, che aveva superato i cinque metri, ora ridotto a meno di quattro. Si prevede che il cantiere non debba essere riaperto per trecento anni. Ma meglio non sbilanciarsi in previsioni, perch la Torre di Pisa in s una sfida alla previsione, e alla purezza del progetto. Proprio la pendenza, e cio lo scostamento dal progetto come era descritto nei piani redatti a priori, si rivela essere, al di l di ogni pretesa di controllo dei progettisti, lorigine della qualit dellartefatto; la fonte della sua inattesa -anzi: non prevedibile- bellezza. Tanto che, negli anni Trenta del 1800, ebbe luogo una vivace polemica. Poich, secondo una diffusa concezione, non pu esistere buon esito che non sia contemplato nel piano redatto a priori, un erudito si accan nel sostenere che la pendenza della torre era voluta, era prevista dal progettista. La tesi fu presto facilmente smentita da altri studiosi. Ma lascia a noi un importante tema di riflessione. Silenzio, vergogna, censura entrano in gioco per occultare ci che letto come grave infortunio tecnico: la torre pende, il progetto realizzato 'non come dovrebbe essere'. Il progettista ha forse fallito? La lezione della Torre di Pisa Il progetto pu essere tradotto in pratica solo se si accetta ci che propone o impone lambiente. Ci non significa che si debba rinunciare a prevedere: sempre utile e costruttivo darsi obiettivi, sempre utile esplicitare aspettative ed intenderle come vincolo di tempo, di luogo e di costo, di modo (ovvero: di tecnologia). Ma si deve restare disposti a rivedere qualsiasi aspetto della previsione, in qualsiasi momento. Solo rinunciando allattaccamento a ci che inizialmente si era pensato, si permette che venga alla luce un risultato. Il migliore dei progetti possibili, un progetto che che si traduce in qualcosa che pu avere luogo nel mondo. Qualcosa che pu aver luogo non in un mondo ideale, ma in quel sito, in quel tempo. Cos c una Torre di Pisa, la migliore delle torri possibili, nel 1100, c la torre del 1200, la torre del 1300, la torre del 1800, la torre del 1900, la torre del 2000. La storia Torre di Pisa ci parla di ambiente: il cedimento del terreno dipende dalla natura del terreno di quel luogo. Non serve nemmeno parlare, anche con grande precisione tecnica, di argilla molle normalconsolidata: gi questa una generalizzazione che mi allontana dallambiente. Io devo costruire la torre l, in quel momento. solo quella pu essere la Torre di Pisa. La storia della Torre di Pisa ci parla di tecnologia: la tecnologia per costruire la torre in quel luogo, nel momento in cui iniziato il lavoro, stata sfruttata fino al limite. Ma non era sufficiente per portare a termine il progetto. La tecnologia di centanni dopo, e di duecentanni dopo, ha permesso di vedere le cose in modo diverso. Cos come la tecnologia della fine del millennio. Ogni volta la Torre stata vista in modo diverso, ogni volta stato possibile pensare soluzioni prima impensabili. La storia della Torre di Pisa ci parla di scopo: lo scopo pu essere raggiunto solo con approssimazione. Scopo alla lettera bersaglio, e basta dunque pensare a come, osservata da vicino, lidea stessa del bersaglio ci appare diversamente leggibile. Ci sono bersagli mobili e fissi, bersagli visibili e non visibili, cos come bersagli defilati al tiro, perch protetti da una massa coprente. E se anche guardiamo al bersaglio da tiro a segno vediamo un sistema di cerchi concentrici e di sezioni. Posso colpire in luoghi diversi il bersaglio, ed in ogni caso lho centrato. Non riuscir mai in ogni caso a colpire perfettamente il centro del bersaglio. E non si vede perch sprecare risorse tentando di avvicinarsi pi di tanto a questo comunque irraggiungibile centro. Cos la Torre di Pisa, come ci dato di vederla: la torre realizzata, edificata, lo scopo stato raggiunto. Sia pur a prezzo della rinuncia ad un aspetto che il progetto sulla carta considerava indiscutibile: la verticalit. Ma questo limite ci appare ora, addirittura, come un pregio. La storia della Torre di Pisa ci parla del senno di poi: solo con il senno di poi, che frutto di giudizi e letture diverse, frutto dellinterpretazione di persone diverse, interpretazioni svolte in luoghi ed in tempi ed in contesti culturali diversi, imprevedibili a priori, anche esterni al campo che il Project Manager pu governare, si pu capire cosa il progetto. 5

Il progetto inizia a rivelare se stesso, inizia a svelare i suoi segreti, quando si smette di lavorare sulla carta. Il progetto si rivela solo durante il lavoro di realizzazione. Il progetto appare chiaro solo dopo. Solo dopo ci si pu accorgere di cosa abbiamo fatto, solo dopo si pu narrare, raccontando come ci si mossi. Non si pu fare la storia del presente, il presente pu essere solo vissuto. Solo quando il lavoro di progettazione terminato, e il progetto si trasformato in cosa, la cosa pu essere usata. Solo nelluso si comprende lessenza della cosa. Anche lestetica del progetto emergente: siccome siamo vittime di una certa idea di progetto, che ci porta ad intendere la bellezza come conformit alla previsione, di fronte allincontestabile bellezza della torre si anche tentato di sostenere che il progetto pre-vedeva una Torre pendente. Invece, la torre, cos come ci dato di vederla, nata dallimpossibilit di far altrimenti: pur di arrivare abbastanza vicini allo scopo, si sono dovuti accettare scostamenti dal progetto, scostamenti vissuti con senso di frustrazione, delusione e colpa. Eppure ci che appariva -nei momenti in cui non si potuto fare altrimenti che adattare il progetto alla situazione- rinuncia, difetto, limite, appare oggi ai nostri occhi vantaggio competitivo della Torre rispetto ad ogni altra torre. Pi che manager, project manager Se il manager si considera legato ad un modo di agire appreso in un qualche master standard in Business Administration, se il manager si considera esecutore di un 'piano' dettato da un qualche portatore di interessi, se il manager agisce come quel tipo di cui vi parlavo prima, sentendosi "costretto ancora da se stesso/ alla fatica vana / di vivere (...)/ con disperata applicazione, il tempo / riga dopo riga dellagenda", allora non c' progetto nella sua azione. Ci sono invece master, e voi lo sapete bene, dove si insegna ad essere se stessi, a valorizzare la propria storia personale, e si fornisce un bagaglio di strumenti diversi dai quali attingere di volta in volta. In questo caso, siamo chiamati a mettere in gioco la nostra autobiografia. Il nostro modo di essere ed il nostro saper fare, in questa luce, appiaono strettamente legati. Avendo in mente il nostro passato, esperienze e memorie, potremo cos agire come quei capimastri che ingegnosamente, mettendo di volta in volta in gioco nuove tecnologie, governarono nel tempo il cantiere della Torre, riuscendo a raggiungere lo scopo oltre l'impensabile. Possiamo a ragione sostenere che il Project Manager il manager del futuro, la figura che ci permette di guardare oltre i limiti del management. Oltre il management che con la sua inadeguatezza danneggia limpresa. Mentre il manager pretende di darsi gli obiettivi da solo, il Project Manager si confronta con obiettivi assegnati. Mentre il manager pu modificare il regime di vincoli, il Project Manager assume su di s il peso del vincolo da rispettare. Mentre il manager pu seguire landazzo, pu nascondersi nella folla, pu giustificarsi dichiarando di aver seguito le indicazioni di un qualche consulente, il Project Manager non ha vie di fuga. Il mandato, e limpegno assunto, sono chiari. Mentre per il manager funziona lalibi delle condizioni esterne sfavorevoli ed impreviste, per il Project Manager non c alibi che tenga: lui lobiettivo deve raggiungerlo comunque. Ma raggiungere l'obiettivo non significa colpire perfettamente il centro del bersaglio. Significa avvicinarsi ragionevolmente ad una meta. Accettare l'imperfezione. L'elogio dell'imperfezione apre lo sguardo sugli atteggiamenti che, a mio modo di vedere, contraddistinguono chi sa farsi carico di compiti dirigenziali senza cadere dalle trappole del management. L'azienda come costruzione comune Vincoli pesanti, lo sappiamo, limitano il nostro spazio d'azione, la nostra libert nel lavorare, e nel dirigere il lavoro degli altri. Ma all'interno di ogni regime di vincoli esistono spazi di discrezionalit, spazi d'azione autonoma, spazi che comunque vadano le cose possono essere occupati. Di l si pu ripartire per tornare a 6

riflettere su cosa l'azienda. Abbiamo perso di vista l'immagine dell'azienda come luogo di convergenza di interessi diversi. Abbiamo voluto dimenticare che la diversit una ricchezza che non toglie nulla a nessuno e avvantaggia tutti. Anche chi disposto ad intendere l'azienda come luogo condiviso da stakeholder diversi, portatori di diversi sguardi sul mondo, anche chi disposto a rivolgere attenzione ad ognuno degli stakeholder, al suo particolare interesse, ha finito per accettare il dato di fatto: l'esistenza di stakeholder tanto prevalenti da apparire schiaccianti; la presenza di attori che prevaricano, e che agiscono come ambasciatori e testimoni e garanti e difensori di un solo interesse, di un solo punto di vista. Per questo utile rivalutare la parola azienda. Ci parla di impresa e di organizzazione, ma ci parla pi specificamente di 'cose da fare', e allo stesso tempo delle 'cose che si stanno concretamente facendo' in questo momento, ci parla di agire individuale e di agire comune. Ci parla, appunto, di luogo di incontro di famiglie professionali e di stakeholder, portatori di interessi diversi. Si pu pensare all'azienda come luogo illuminato da sguardi diversi. L'azienda il terreno comune verso il quale convergono i diversi sguardi. Il luogo dove, in vista di un interesse comune, ad ogni persona ed ad ogni famiglia professionale e ad ogni portatore di interessi, garantito rispetto e considerazione. Il luogo dove ad ognuno sono offerti spazi di autonoma azione e ragionevoli gradi di libert. L'azienda sempre pi complessa ed articolata di come ogni singolo portatore di interessi vorrebbe che fosse. Perci conviene guardare all'azienda come luogo dove, adattandosi l'uno all'altro, convivono interessi e punti di vista. Gli interessi ed il punto di vista del lavoratore a tempo indeterminato e del lavoratore interinale, gli interessi ed il punto di vista della popolazione femminile e di quella maschile, gli interessi ed il punto di vista di chi ha messo a disposizione risorse finanziarie, gli interessi ed il punto di vista dei clienti, dei fornitori, della comunit locale dove l'impresa insediata, gli interessi delle generazioni future e di chi vive in altri luoghi del pianeta, lontanissimo da noi. Cos, osservata in questa ottica, l'azienda, lungi dal corrispondere a un modello gi dato, o alle aspettative dei pochi 'soliti noti', costruita istante dopo istante attraverso il lavoro di tutti. E cos, di conseguenza, appare ridefinito il ruolo di chi ne regge le sorti. Non pi al servizio esclusivo di alcuni interessi, ci appare come mediatore tra i diversi interessi. Tracce di una nuova figura Possiamo quindi dire che il manager che guarda al progetto, il manager che va oltre i limiti del management inteso come dottrina, si caratterizza per tre atteggiamenti: la guida, il governo e la cura. La guida Dalla radice indeuropea swer- discende un insieme di concetti di grande respiro: 'vedere', 'guardare', 'conservare', 'vegliare', 'indicare'. Fornire garanzia, salvaguardia, difesa. Lidea della guida ci invita a guardare lontano, e a muoverci nel dubbio, nell'incertezza: leggendo indizi nel terreno che calpestiamo, ponendo attenzione alla banderuola che indica il vento. Nel significato dell'espressione, fondamentale il passaggio al significato attivo: 'far vedere', 'fare osservare', 'far prendere una direzione'. Mostrare agli altri il cammino, il lavoro da fare, non solo andando innanzi, ma anche se del caso accompagnando, affiancandosi, dirigendo l'andare in una data direzione, indicando i punti di svolta, segnalando il pericolo ed anzi: mostrando come muoversi da soli nell'imminenza del pericolo. Pi la guida capace, pi rende gli altri capaci di muoversi in autonomia. E il senso si allarga ancora: ammaestramento, direzione, consiglio, protezione, sostegno morale o materiale, soccorso. Virgilio guida Dante, ma non si sostituisce a lui, n gli impone il suo volere. Torna qui in mente il 7

senso rivelato dall'etimologia di leader: colui che guida la danza, colui che detta il ritmo, e aiuta gli altri a mantenerlo. La guida alpina conduce in escursione garantendo la sicurezza, ma permettendo a ognuno di fare la propria esperienza. La guida non sta necessariamente in testa alla fila, al vertice della piramide organizzativa, eppure risalta per carisma, o per esperienza, o per conoscenze professionali. La guida stimola lazione collettiva, la partecipazione, la crescita individuale. La guida mostra come si fa: non necessariamente il capo, colui che sa affiancare gli altri come primus inter pares. Al posto di manager che impongono agli altri le ragioni della propria carriera, o che assoggettano le imprese agli interessi di un solo stakeholder o di una sola lobby, ecco dunque una figura professionale orientata a sostenere ognuno in un ragionevole perseguimento dei propri interessi. Nel rispetto delle diverse attitudini e dei diversi punti di vista. Figura orientata allintegrazione, alla conciliazione, alla valorizzazione dei talenti, al miglioramento personale e collettivo. Il governo Il governo , in senso stretto uno strumento: il timone. Perci possiamo intendere il governo, o timone, come simbolica, sintetica immagine di ogni strumento che si usa per 'fare il punto', per leggere la situazione, vedere oltre i confini del noto, del gi fatto e del gi detto. Per valutare lo stato delle risorse, per ripensare, alla luce delle condizioni presenti, la tensione verso la meta, lo scopo, il fine dell'impresa. Non dunque strumento di controllo -verifica a ritroso, ricerca della conformit a una rotta gi tracciata-, ma all'opposto strumento per leggere l'istante, il qui e l'ora, come spazio di possibilit, come apertura al futuro. Limpresa, lazienda, lorganizzazione: imbarcazioni non necessariamente perfette, ma comunque in grado di galleggiare e di muoversi nella direzione voluta, anche in un mare periglioso, anche durante le tempeste. Il manager tende ad applicare modelli e schemi. Il manager si protegge dal possibile insuccesso, e ancor prima dal possibile giudizio negativo, ripetendo percorsi altrui, attenendosi a procedure, conformandosi a consigli di consulenti. Subendo, facendo propri gli obiettivi dello stakeholder che appare al momento pi forte. Il manager appena pu si afferra a routine: alla lettera 'piccola strada', 'strada gi tracciata'. Mentre chi governa apre la strada: il latino rupta, da cui rotta, ma anche il francese route, sta per via rupta: nuova strada aperta; praticabile strada vista l dove altri non sapevano vedere che terreno non percorribile. Il manager pianifica e programma, e poi esegue. Anzi, controlla che chi lavora alle sue dipendenze esegua alla lettera. Governare, invece, impegnarsi in prima persona. Governare significa assumersi rischi, significa affrontare situazioni nuove di fronte alle quali non si sa cosa fare. Governare significa scommettere sulle proprie e sulle altrui capacit - anche su capacit non ancora visibili e palesi. Governare significa tenere il ritmo: muoversi in sintonia con l'ambiente circostante. Significa tendere verso la meta sia in condizioni di mare buono che di mare cattivo. Significa, istante dopo istante, cogliere il momento propizio: l'esperienza non usata difensivamente come rassicurazione; invece spesa nel momento, utilizzata per muoversi in circostanze mai prima sperimentate. La responsabilit del governo riguarda chi investito del ruolo di responsabilit, ma anche, tutti coloro che partecipano all'equipaggio, all'azienda. Per ogni stakeholder, il perseguimento del proprio interessa passa sempre anche attraverso l'assumersi una ragionevole quota della responsabilit del governo. La cura Preoccupazione, ansioso pensiero a proposito di; osservazione, attenzione a, custodia di, interesse per. E le idee del proteggere, mantenere, provvedere, procurare, nutrire. Lessere nel mondo essenzialmente cura. La cura di manifesta, istante dopo istante, nellesserci, 8

nellessere presente. Essere nel tempo: essere quando e dove serve. Ogni persona al lavoro chiamata ad essere assennata, saggia, a stare in guardia, a lavorare con cura. Cura: sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza. Inquietudine: nel senso di preoccuparsi, farsi carico, non prendersela comoda. Il punto di partenza sta, per ognuno, nel prendersi cura di se stessi. Il manager, nei suoi consueti comportamenti, cerca soddisfazione nellesercizio del potere, cerca rassicurazione nellappartenenza ad una lite. Il manager mette al centro della propria vita il lavoro. Ma non si cura veramente di se stesso: non si cura di star bene, vive di incazzature, di ostentazioni, di stress. Non cerca momenti di tranquillit e di piacere, non si cura della propria formazione, dellallargamento dei propri orizzonti. Eppure, solo la persona che sa prendersi cura di se stessa pu assumersi con piena intenzione il duplice compito necessario per orientare lazienda verso il buon funzionamento. Il primo: prendersi cura delle persone. Di tutte le persone che lavorano in azienda, con qualsiasi contratto o rapporto di lavoro, con qualsiasi rapporto di collaborazione, creando situazioni che permettano loro di essere responsabili di se stessi. E allo stesso tempo dei clienti, e dei fornitori, e di ogni altra persona coinvolta nella vita dellazienda e nellattivit dellimpresa. Il secondo: procurare le risorse perch l'azienda viva, garantire gli strumenti e le conoscenze e le condizioni ambientali necessari perch il lavoro si svolga, perch il lavoro ci sia. Se non c' cura, il lavoro manca: mancano posti di lavoro. Ma anche, se non c' cura, sebbene il lavoro in apparenza ci sia, e dunque le persone siano fisicamente presenti sul posto di lavoro, il lavoro non c'. Perch non c' gratitudine reciproca, non c' costruzione comune di ricchezza, non c' azienda: 'le cose da farsi' non si fanno senza cura. Abbandonare le astrazioni normative del management e guidare, governare, curare: non poi cos difficile. Il progetto e lequit Si riusc ad edificare la Torre di Pisa perch si seppe accettare che Torre di Pisa come diversa da ogni altra torre. Cuore fall perch un manager voleva quella rivista uguale ad ogni altra rivista. La differenza tra una scelta ed unaltra sta nelle mani del manager. Nelle anche nelle nostre mani. Persino di fronte a scelte di vertice che non condividiamo e che siamo costretti a subire, dovremmo ricordare che la nostra azione, mossa dal sogno e dal desiderio, pu cambiare il mondo. Possiamo dunque intendere il progetto come costruzione condivisa di un futuro possibile. Possiamo intendere lazienda come luogo di incontro, di possibile convergenza di punti di vista ed interessi divergenti. E possiamo dire che il guidare, governare e curare le organizzazioni non passa, in fondo, attraverso la ricerca di una sempre pi affinata ragione. N passa attraverso la ricerca di una assoluta giustizia. Sta, piuttosto, in un ragionevole, saggio tentativo di dare senso alla vita. Alla vita in senso lato, e alla vita di lavoro nostra e altrui. Solo in virt di questi atteggiamenti Possiamo ricordare che il manager -questa figura di tecnico, chiamato a gestire organizzazioni complesse- venuta alla luce negli anni 30 del secolo scorso, come risposta alla crisi di allora. Credo che si possa dire che le risposte che allora vennero date alla crisi furono pi ferme e precise delle risposte che sono state date oggi, di fronte ad una crisi che non meno grave. Ma il tempo per trovare risposte non mai scaduto. Sta a noi, ora -a partire dalla nostra autobiografia, dalla nostra cultura, dalla nostra etica, a partire dalla nostra capacit di progettare-, sta a noi immaginare un modo di condurre le aziende adeguato ai tempi. Di questo ho cercato di parlare il queste pagine. Tutto, infine, pu riassumersi in una parola: equit. Lequit non si fonda su assiomi o su scelte di campo, non sta in nessun programma. Lequit sta nel guardare al bene comune, oltre ogni privato e personale e immediato interesse. Lequit sta in un progetto perseguito giorno dopo giorno, passo dopo passo, nel pubblico confronto e nel rispetto 9

dellaltro. Nota. I temi di cui qui tratto sono esposti in modo pi approfondito in due miei libri. Francesco Varanini, Contro il management. La vanit del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune, Guerini e Associati, 2010. Francesco Varanini, La complessa vita del progetto. uno sguardo umanistico, in Francesco Varanini e Walter Ginevri (a cura di), Il project management emergente. Il progetto come sistema complesso, Guerini e Associati, 2009. La vicenda del settimanale Cuore narrata collettivamente (anche con un mio contributo) in Non avrai altro Cuore all'infuori di me. Vita e miracoli di un settimanale di resistenza umana, Rizzoli, 2008. Sul sito www.bloom.it, in data 22/04/2008, racconto pi dettagliatamente dei miei anni a Cuore. La mia principale fonte proposito della Torre di Pisa : Enzo Carli, Il campanile, in Il Duomo di Pisa, a cura di Enzo Carli, Nardini, Firenze, 1989.

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