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Stendhal (Henry Beyle) / 1783-1842.

… la scena della battaglia è ideale per porre la questione dello sguardo…


“Signore, ho già letto nel “Le Constitutionel” un articolo tratta da “La Chartreuse” che mi ha
fatto commettere il peccato d’ invidia. Sì, sono stato preso da un’ accesa gelosia da questa vera e
superba descrizione della battaglia che io sognai per le “Scènes de la vie militaire”, la più difficile
porzione della mia opera, e questo pezzo mi ha eccitato, addolorato, incantato, disperato. Io ve lo
dico ingenuamente. Ciò è fatto come Borgognone e Vouvermans (sic), Salvator Rosa e Walter
Scott”.

(Lettera di Honoré de Balzac a Stendhal, fine marzo 1839).

La gelosia di Balzac si spiega. Come Walter Scott, come François-Renè de Chateubriand, come
Alfred de Vigny, come Victor Hugo e come Stendhal quindi, lui deve metterci la sua pietra al
monumento napoleonico in piena edificazione: nel periodo che segue la caduta dell’ Impero, il mito
imperiale s’ impone in una nuova religione intorno alla quale si costruisce un consenso nazionale
che trova la sua espressione monumentale all’ epoca del ritorno delle ceneri, nel 1840. Le grandi
battaglie napoleoniche sono oggetto di commemorazioni pubbliche e culturali. Quella di Waterloo
per Stendhal, pubblicata ne La Chartreuse de Parme nel 1839 si iscrive allora una storia del genere
che occorre evocare.

A Versailles, Louis-Philippe decide nel 1833 di aprire un museo dedicato “a tutte le glorie della
Francia” la cui opera principale è la Galleria delle Battaglie che accoglie dei dipinti commissionati
dall’Imperatore, quale la celebre Battaglia d’Austerlitz (1810) del barone François Gérard, che
Napoleone voleva veder ornare il soffitto del Consiglio di Stato, o delle opere più recenti, come la
trilogia di Horace Vernet: Iéna, Wagram e Friedland presentata alla fiera del 1836. L’ Imperatore
ne è la figura centrale, è riconoscibile dagli accessori che sono diventati gli attributi del suo potenza
così come le componenti del mito. È rappresentato in capo militare che passa in rassegna le sue
truppe, o in stegneggio che maltratta gli acri impegnati sul campo di battaglia, grazie alle ordinanze
che gli conferiscono informazioni o ancora grazie alla sua lunga visione che gli permette di
osservare i movimenti delle sue truppe e le falsità del trattato. In questo senso, il pittore riconosce
nell'Imperatore una sorta di doppione dello specchio: è quello quindi l'occhio vede costo. La scena
di battaglia è un genere ideale per porre la domanda dello sguardo

... una grande assente, la battaglia stessa....


Tuttavia, questo modo di rappresentare la guerra è ben lungi dal soddisfare tutti; già in Colloqui in
forma di dialogo tra un poeta e il narratore, il poeta, dopo aver lodato la verità dei dettagli
dell'Austerlitz di François Gérard, avere delle riserve;<< Questa non è una battaglia, è un riposo. Il
fondo del quadro è solo in azione; tutto l'interesse è sul generale che lo fa.>> (Interviste sulle opere
di pittura esposte al museo Napoleone nel 1810, 1810). Ci si lamenta che la figura dell'Imperatore
nasconda in realtà una grande assente, la battaglia stessa. Nel 1836, i dipinti esposti al Salon
provocano lo stesso tipo di reazione. Alfred de Musset è categorico:
“Mi basta citarli e notare che ciò che vi si può trovare di più riprovevole, è il titolo che è stato dato
loro; perché non sono battaglie. Innanzitutto perché non si combatte, e non si poteva combattere,
poiché l'Imperatore è lì in persona”.

(Revue des Deux Mondes, 15 aprile 1836).

Roger de Beauvoir non è meno chiaro (Salon de 1836):

“In tutti questi episodi di guerra scelti certamente anno da M. Vernet, che cosa vediamo? Due
granelli di fumo in lontananza e sul primo pian un uomo a cavallo, l'invariabile ed eterno vincitore
Napoleone. Tutte queste terribili mischie, tutte queste guerre d'ambizione finiscono nel Sig. Horace
Vernet e nelle schede della Grande Armata che finiscono così: "L'Imperatore sta bene." Ci sembra
che questo non sia quello di scrivere la storia. Quando si fa dipingere la battaglia, non è, a nostro
avviso, per dire al popolo: venite a vedere, la guerra è un mestiere affascinante; ma si è pittori per
mostrare al popolo la realtà della guerra.”

... Un eroe che lancia spade...


Si è pittori per mostrare la realtà della guerra! Sembra che Stendhal parta esattamente da questa
affermazione, da questa posizione che viene presa di posizione contro tutto ciò che si fa allora in
materia di rappresentanza militare. Non c'è dubbio che il suo punto di partenza è la pittura: conosce
bene François Gérard, presso il quale cena con Balzac e Eugène Delacroix il 2 novembre 1836; fa
riferimento ad Antoine Gros fin dalle prime pagine de La Chartreuse, per raccontare un aneddoto su
di lui che risale al maggio 1796. E soprattutto, segnala al lettore che il suo eroe, Fabrice del Dongo,
ha imparato a leggere in un libro di immagini raffiguranti scene di battaglia:

“Il marchese suo padre esigette che gli fosse mostrato il latino, non secondo i vecchi autori che
parlano sempre di repubbliche, ma su un magnifico volume ornato di oltre cento incisioni,
capolavoro degli artisti del XVII secolo; era la genealogia latina dei Valserra, Marchese del
Dongo, pubblicato nel 1650 da Fabrice del Dongo, arcivescovo di Parma. Essendo la fortuna dei
Valserra soprattutto militare, le incisioni rappresentavano forza battaglie, e sempre si vedevano
alcuni eroi di questo nome che davano grandi colpi di spada. Questo libro piaceva molto al
giovane Fabrice.”

Non è difficile rendersi conto che il dettaglio è di estrema importanza: l'antenato di Fabrizio, che
porta lo stesso nome e prefigura ciò che diventerà, è all'origine dell'immagine che il giovane si fa di
lui: un eroe che dà colpi di spada. Ma questo libro gli è stato offerto da un padre che ha ragione e
odia; quindi è certamente il luogo di una menzogna storica e politica che lo scrittore si dà il compito
di correggere, con realismo. Così, Balzac non ha certo torto di evocare il pittore militare del XVII
secolo Jacques Courtois, detto il Bourguignon, il cui lavoro pone l'accento tanto sulla mischia
quanto sui morti. Ciò di cui Stendhal ci parla è della realtà della guerra, dei cadaveri di uomini e di
cavalli, del fumo, del fango (aveva piovuto alabarde nei due giorni che precedettero il 18 giugno
1815) e del rumore incessante, «scandalizzante» sul qualelo storico inglese John Keegan insiste
anche nel fare appello a diverse testimonianze.
Il rumore della battaglia:
«Gronow [...] paragona l'impatto dei proiettili delle sue guardie sulle corazze degli uomini di
Kellerman e Milhaud "al rumore di una pioggia di proiettili su lastre di vetro". C'erano anche dei
suoni che si potevano percepire solo nelle immediate vicinanze della loro origine, altrimenti la voce
generale dell'artiglieria e dei fucili li copriva interamente. Diversi testimoni però ricordano [...] il
fischio dei proiettili, che copriva il suono del cannone. Mercer lo descrive come "un gemito
misterioso, qualcosa come il ronzio di migliaia di insetti neri in una sera d'estate." [...] Mercer,
alla fine della giornata, si dice anch'egli quasi sordo, e si può credergli alla lettera. Come
comandante di una batteria le cui monete hanno sparato settecento volte ciascuna durante la
battaglia (cifra sorprendente!) si è trovato sufficientemente al centro della tempesta perché i suoi
timpani ne fossero stati colpiti. »

(John Keegan, Anatomia della battaglia, Robert Laffont, 1993)

…il contro piede di una galleria di quadri di battaglie...


Tuttavia, il realismo di Stendhal non si ferma qui: non contento di scegliere di scrivere la legende di
una sconfitta, lo scrittore concepisce la sua scena di battaglia come un pezzo staccato dal suo
romanzo che consegna peraltro a parte ne Le Constitutionnel e organizza una galleria composta da
una serie di «quadri» che rappresentano episodi che formano dei non-eventi: le conversazioni di
Fabrice e di una vivandiere, gli incontri mancati di Fabrice con il maresciallo Ney, con l'Imperatore,
con il conte di A. (il tenente Robert) la sua vera padre... È prendere l'esatto contropiede del
principio messo in opera a La Galerie des Baitalles che propone un percorso da una battaglia
all'altra, più ancora, da un momento notevole della battaglia ad un altro momento notevole che il
pittore ha scelto nei Bulletins de la Grande Armée, d'accordo con il suo committente.

Non si può dire che l'Imperatore sia totalmente assente dalla battaglia di Waterloo come è vista da
Stendhal, ma si può dire, invece, che inverte i piani: Napoleone figura sul retropiano in una sorta di
nebbia formata meno dal fumo che dalla griseria di Fabrice il cui lettore adotta il punto di vista:

“Improvvisamente il maresciallo degli alloggi gridò ai suoi uomini:

- Non vedete dunque l'Imperatore, s... ! Subito la scorta gridò: viva l'Imperatore! a squarciagola.
Si può pensare se il nostro eroe guardò con tutti i suoi occhi, ma vide solo dei generali che
galoppavano, seguiti anch'essi da una scorta. Le lunghe criniere pendenti che portavano ai loro
caschi i draghi gli impedirono di distinguere le figure. «Così non ho potuto vedere l'Imperatore su
un campo di battaglia, a causa di questi dannati bicchieri d'acquavite!”

Allo stesso modo, nel nostro passaggio, il maresciallo Ney appare come al secondo piano. Non è su
di lui che Stendhal focalizza l'attenzione del lettore. Nonostante l'apparizione del maresciallo di
Francia, dovuto ad Elchingen e principe della Moskova, Fabrice resta il soggetto grammaticale della
frase, colui che ne domina l'orientamento. Inoltre, il ritratto di Ney è appena abbozzato, è
accoppiato con quello di un altro generale, che Stendhal non si dà il disturbo di nominare (mentre la
leggende dei grandi quadri di battaglia dice bene quali sono i personaggi rappresentati intorno
all'Imperatore), riconosciuto da due indizi di dubbia nobiltà: è il più grande, e giura, si vorrebbe dire
come il bottaio che era. Del resto è difficile non vedere una traccia di «spirito cattivo» nella scelta
di Ney come figura del gesto napoleonico: il generale radunato a Luigi XVIII, inviato a combattere
Napoleone di ritorno dall'isola d'Elba, Si unirono a lui e furono fucilati nella seconda Restaurazione.
Infine, e per finire con questo generale di secondo piano, se indossa una occhiatura come il
Napoléon à Wagram di Horace Vernet, non può vedere nulla poiché Fabrice gli fa schermo e
Stendhal non si prende la briga di spiegarci ciò che vede. Così, Stendhal non adotta il punto di vista
sovrastante dello stratega, al contrario, sceglie di guardare attraverso gli occhi di un personaggio
neofita, «un giovincello» che sta facendo il suo apprendistato, che non capisce nulla e non afferra la
logica della battaglia: Non sa riconoscere un generale e ci si potrebbe quasi chiedere se è
consapevole del fatto che «gli abiti rossi» sono gli inglesi, che Stendhal si guarda dal designare
come tali, il che rafforza ancora la confusione.

Procedendo al contrario di Stendhal, Balzac, ne La Femme de trente ans(1831-1834), rende conto


dell'ultima rivista dell'Imperatore alle Tuilerres:

«Grida di: Viva l'Imperatore! furono spinti dalla moltitudine entusiasta. Infine tutto tremò, tutto si
smuove, tutto si scuote. Napoleone era un cavallo. Questo movimento aveva impresso la vita a
queste masse silenziose, aveva dato voce agli strumenti, uno slancio alle aquile e alle bandiere,
un'emozione a tutte le figure. Le pareti delle alte gallerie del vecchio palazzo sembravano gridare
anche: Viva l'Imperatore! Non era qualcosa di umano, era una magia, un simulacro della potenza
divina, o meglio, un'immagine fuggitiva di questo regno così fuggevole. L'uomo circondato da tanto
amore, entusiasmo, dedizione, voti, per il quale il sole aveva scacciato le nuvole dal cielo, rimase
su san cavallo, a tre passi avanti dal piccolo squadrone Dora che lo seguiva [...], all'interno di
tanta emozione eccitata da luì, nessun tratto del suo volto sembrava commuoversi. »

Stendhal in spagnolo
Stendhal è in generale inseparabile dall'Italia, per i suoi romanzi, i suoi racconti di viaggio,anche la
sua biografia, ma non si può dimenticare ciò che la sua epoca deve alla letteratura spagnola del
Secolo d'oro, al romanzo come al teatro barocco. Se Ruy Blas è un eroe picaresco, un declassato
ingegnoso in una società ieratica e rigida, anche Fabrice è un eroe <<bastardo>> come l’ha definito
Marthe Robert, un Don Chisciotte che corre l'avventura per diventare un uomo. Alla battaglia di
Waterloo, non capisce nulla, perso tra la sua ignoranza occulta e la sua volontà di essere un eroe. Il
traduttore spagnolo ricorda il motivo del bambino trovato o rubato, che si ha in "La vita è un sogno"
di Calderón, nelle "Nuovi esemplari" di Cervantes o anche "Il matrimonio di Figaro", che si svolge
in Spagna... Così traduce <<blanc-bec>> con "mocoso", letteralmente "moccioso", parola che è
spesso usata nella letteratura picaresca per qualificare l'eroe e che partecipa alla parodia. Infatti, non
si può leggere questa battaglia di Waterloo come una parodia epica? La frase <<vuoi fermarti,
pivello! >> diventa una frase molto ampollosa all'inizio, "¿quieres hacer el favor de pararte" (mi
faresti il piacere di allontanarti>>) che termina con questa parola banale "mocoso" e questo
spostamento crea un effetto comico supplementare che non esiste in francese. Più avanti quando
Fabrice esclama: “Ah! Eccomi dunque al fuoco! ho visto il fuoco! Eccomi qui un vero militare>>, il
traduttore è costretto a ricorrere alle virgolette e all'interruzione del discorso diretto nel racconto
perché non può rispettare la diversità delle voci narrative del testo (il racconto picaresco è sempre e
solo alla prima persona), e per questo la riflessione di Fabrice è molto più banale e orale: "¡Bueno! ¡
Asi que al fin be entrado en Fuego! ¡ He visto el Figo! Heme Chi un verdadero Militar", dove
l'interezione "bueno" è popolare e il parallelismo «m’ y voilà (eccomi)/me voici (eccomi)>> è
sviluppato in due strutture diverse e di un registro più basso di lingua. Mettendo in bocca ai
personaggi le parole e le espressioni dell'eroe picaresco, trasponendo nelle prese di parola dirette le
diverse voci narrative, Il traduttore dimostra di aver letto metapoeticamente la riflessione del
narratore per lui queste parole volevano dire: «Mai sarò un eroe», invece, perde un po' della
sottigliezza stendhaliana. È del resto nel XIX secolo che "La Vida de Lazarillo de Tormes",
racconto fondatore del romanzo picaresco è stato pubblicato integralmente per la prima volta.

… «Non si racconta la storia di una battaglia come si racconterebbe un ballo»…


Anche qui Stendhal fece opera di realismo. Lo storico della guerra sa che è molto difficile al centro
della battaglia fare un resoconto dell'azione a cui uno è coinvolto, i punti di vista sono
necessariamente parziali; così il reggimento inglese (gli Inniskillings), bloccato all'incrocio
dell'Haye-Sante, voltando le spalle al teatro delle operazioni, subendo enormi perdite, poteva
credere che Waterloo fosse una sconfitta. Wellington stesso, il grande vincitore di Waterloo, di cui
Stendhal cita le analisi in "Le memorie di un turista" (1837), scriveva:

«Non si racconta la storia di una battaglia come si racconterebbe un ballo, alcune persone possono
bene raccogliere i piccoli eventi la cui somma risulta in una battaglia vinta o persa, ma nessuno
può ristabilire il loro ordine, né il momento esatto della loro manifestazione, che sono, tuttavia, ciò
che ne fa il vero valore dell'importanza.»

(citato da John Keegan, "Anatomia della battaglia", Robert Laffont, 1993).

La scena che leggiamo qui ben corrisponde a questo imbroglio militare: la gioia degli ussari alla
vista dei cadaveri vestiti di rosso fa loro vedere l'azione attraverso un piccolo pezzetto della lente:
dal loro punto di vista, in questo momento della giornata, la Grande Armata è vittoriosa. Forse
bisogna anche tenere conto di questa confusione generale dei popoli e delle nazioni l'insistenza di
Stendhal a sottolineare l'italianità del suo eroe, che i francesi non cessano di considerare una spia.
Al «Vive la France! » dei patrioti, lo scrittore sostituisce una visione decentrata, quella dello
straniero che, nonostante i suoi sforzi per «sistemare una piccola frase francese», sceglie il termine
«gourmander» che non sottolinea troppo la sua differenza.

…“ben poco eroe”, indubbiamente, ma anche “forte uomo”…


Da una guerra restituita nella sua confusione prosaica, l’eroe non può uscirne illeso. Si è visto che il
capo delle forze armate non è stato eroicizzato e non si può fare a meno di sorridere all’ingenuità di
Fabrizio (ricordiamo che ha solo 17 anni) che sogna una sola cosa: somigliare al grande maresciallo
rubicondo per diventare un eroe. Non è necessario avere un acuto senso della ricorrenza matematica
per rendersi conto che la parola “eroe” è evidenziata nel testo, non solo per il numero di occorrenze
(quattro), ma soprattutto per la posizione che essa occupa e che non si lega solo al taglio
dell’estratto. La frase introduttiva gioca piacevolmente con la polisemia del termine: l’eroe del
romanzo non ha un comportamento eroico, si segnala anzi che ha paura. Ma non c’è motivo per cui
privarlo della nostra simpatia. Tutt’altro, il coraggio non sembra essere il valore supremo. Stendhal,
sottolineando l’ammirazione infantile di Fabrizio, non esita a ironizzare sulla bravura che si
attribuisce al maresciallo Ney, soprannominato da Napoleone “il valoroso tra i valorosi”. Non è il
primo, ovviamente, a mettere sotto accusa la “il macello eroico” che è la guerra. Voltaire l’aveva
fatto prima di lui nel capitolo III del Candide (1759). E non bisogna vedere là un riferimento
innocente. Stendhal è un figlio dei Lumi. Tratta di Waterloo con un realismo ateo che si percepisce
meglio se si paragona il suo racconto a quello di Chateaubriand o di Hugo: i due scrittori romantici
attribuiscono la sconfitta di Napoleone ad una punizione di Dio. Essi vedono in questa battaglia un
disegno della Provvidenza. Al contrario, ne La Certosa di Parma, se la guerra non è trattata
secondo un punto di vista sovrastante, è per due ragioni che si confermano: per realismo e perché
non è al fato dominato da Dio che Stendhal rinvia, ma al comportamento casuale di un uomo che
tenta in vano di leggere i segni del suo destino. Fabrizio del Dongo non è un eroe perché è un uomo.

Genere maggiore del XIX secolo, il romanzo di formazione presenta il destino di un giovane
uomo volenteroso e ambizioso, spesso riempito di illusioni, pronto ad affrontare il mondo con
ingenuità, a commettere errori e storditaggini, ma capace anche di trarre vantaggio dai suoi sbagli e
di arricchirsi dell’esperienza acquisita. Le differenti prove che incontra sono tappe necessarie della
sua iniziazione. Esse scandiscono sia il percorso del personaggio che la struttura generalmente
lineare del racconto. Il tipo ne è perfettamente rappresentato da Eugène de Rastignac del quale si
può seguire l’evoluzione nei diversi romanzi della Comédie humaine, dalle lacrime dello studente
fino alle sentenze fornite dal ministro:

“Uno studente non ha tanto tempo s’egli vuole conoscere il repertorio di ogni teatro, studiare le
questioni del labirinto parigino, sapere gli usi, apprendere la lingua e abituarsi ai piaceri
particolari della capitale […]. Nelle sue iniziazioni successive, egli si spoglia del suo alburno,
amplia l’orizzonte della sua vita, e finisce per concepire stratificazione dei livelli umani che
compongono la società.”

(Honoré de Balzac, Le Père Goriot, 1835).

Bisogna comprendere quindi la risonanza di due espressioni costruite parallelamente: «ben poco
eroe”, indubbiamente, ma anche “forte uomo”. Il romanzo di formazione è, in qualche modo,
distolto dalla sua vocazione primaria: il personaggio principale non apprende come diventare eroico
e virtuoso, egli apprende come essere quello che è: un uomo. Potrebbe essere questo umanismo del
soldato ad aver caratterizzato Jean Giono per il suo Hussard sur le toit (1951), fortemente ispirato
alla Certosa di Parma...

…Il narratore osserva con una distanza divertita…


Non si dovrebbe credere tuttavia che Stendhal denuncia l’orrore della guerra: ciò che scandalizza
Fabrizio è il rumore, ciò che gli da un brivido di orrore è di calpestare gli sfortunati feriti o di
vedere un cavallo avviare i suoi piedi nelle sue stesse interiora. Il narratore si astiene dal
condividere le emozioni del suo personaggio, che osserva con simpatia, ma anche con una distanza
divertita. E’ quindi molto difficile individuare su cosa poggi l’ironia di Stendhal. Utilizzando il
discorso indiretto libero, sembra adottare alcune delle parole che fuoriescono dalla bocca di
Fabrizio, ma ugualmente le riprende per sottolinearne il ridicolo. E’ assolutamente chiaro che i
qualificativi di “famoso principe della Moskova” e “valoroso tra i valorosi” utilizzati per qualificare
Ney sono da prendere ironicamente, e da mettere in conto alla “l’ammirazione infantile” di
Fabrizio. Come, invece, interpretare il “évidemment” dell’osservazione “il criaient évidemment
pour demander du secours”: ironia relativa all’ingenuità del personaggio? Ironia di secondo grado
che ammette implicitamente l’evidenza del bisogno di portare soccorso ai feriti?

Il racconto di Waterloo da parte di Chateaubriand ne les Mémoires d’autre tombe:


«Ascoltatore silenzioso e solitario della formidabile sospensione dei destinati, sarei stato meno
commosso se mi fossi trovato in una mischia: il pericolo, il fuoco, la frenesia della morte non mi
ebbero lasciato il tempo di meditare; ma solo sotto un albero, nella campagna di Gand, come il
pastore dei greggi che passavano attorno a me, il peso delle riflessioni mi opprimeva: Cos’era quella
battaglia? Era definitiva? Napoleone era lì in persona? Il mondo, così come la veste del Cristo, era
gettato alla sorte? Successo o sconfitta per l’uno o l’altro esercito, quale sarà la conseguenza per i
popoli,, libertà o schiavitù? Ma che sangue scorreva? Ogni rumore pervenuto al mio orecchio non
era l’ultimo sospiro di un francese? Era un nuovo Crécy, un nuovo Poitiers, un nuovo Azincourt,
colui per cui gioiranno i più implacabili nemici della Francia? Se loro trionfavano, la nostra gloria
non era perduta? Se Napoleone la portava con sé, cosa diventava la nostra libertà? Sebbene la
vittoria di Napoleone mi avviò ad un esilio eterno, in quel momento portavo la patria nel mio cuore;
i miei voti erano per l’oppressore della Francia, se lui dovesse, conoscendo il nostro onore,
strapparci alla dominazione straniera». (François-René de Chateaubriand, Mémoires d’outre-tombe,
libro 23, capitolo 16).

… lo scrittore oscilla tra coinvolgimento e disimpegno…


Con Stendhal non c’è indignazione né pathos: i feriti non sono descritti, i nemici sono reificati (resi
concreti) attraverso il modo di designarli metonimicamente mediante l’espressione “les habits
rouges”. Lo scrittore oscilla tra impegno e disimpegno: il desiderio di Fabrizio di battersi per
Napoleone è simpatico, anche se è infantile; ma Stendhal osserva con cinismo la sconfitta del
Grande Esercito (la Grande Armée). Potremmo ricordare un aneddoto biografico che permette di
conoscere meglio il personaggio. Secondo Michel Crouzet, è per forzare la fortuna, per incontrare
Napoleone, che Henri Beyle riesce nel 1812 a occupare il ruolo di direttore degli
approvvigionamenti di riserva, il che gli consente di partecipare alla campagna in Russia. Egli si
trova dunque a Mosca durante l’Incendie. Nel suo Journal, «[…] egli annota l’immensa confusione,
il decadimento generale della disciplina collettiva, una sorta di sgretolamento degli individui, degli
atti, degli istanti […], egli registra la caduta universale nell’insignificante. […] Tutti saccheggiano,
rubano, distruggono, ma scioccamente, on “pillote”» (Stendhal, Flammarion, 1990). Lui stesso
partecipa simbolicamente a questo saccheggio: ruba un volume di Voltaire in una biblioteca: le
Facéties!
Così avremo difficoltà a definire qual è la posizione dello scrittore: egli partecipa alle gesta di
Napoleone, ma rifiuta la pantheonizzazione (?) del suo eroe; descrive la sconfitta di Waterloo, ma
non ne fa una vittoria per gli Inglesi; dimostra il modo in cui «i miracoli di bravura e genio»
dell’esercito del generale Bonaparte hanno cacciato la noia, hanno riempito un mondo vuoto e usato
(capitolo 1), ma mostra anche come le loro gesta sono terminate nell’individualismo trionfante
secondo cui ognuno pensa solo a salvare la propria pelle.

… la circolazione permanente dello sguardo…


In fondo la posizione di Stendhal è proprio quella del suo eroe: nonostante sia pronto a tutto per
integrarsi nel reggimento degli ussardi (hussard) al quale si è unito, egli rimane uno straniero che, al
centro della battaglia, la guarda da lontano, prende il tempo di annotare degli «effetti singolari»
(«effets singuiliers»), si sdoppia per vedersi partecipare alla guerra: «Ah! Eccomi finalmente in
guerra ! si dice. Ho visto il fuoco ! si ripeteva con soddisfazione. Sono un vero militare.» In effetti
non possiamo non sorprenderci del numero di verbi di percezione presenti nel testo: il remarqua
(notò), il s’aperçut (si accorse), il vit (vide), il contemplait (contemplò)… Quest’ultimo verbo
merita la nostra attenzione: come evitare il rimprovero giustificato che cade sulle scene della
battaglia descritte: «Questa non è una battaglia, è un riposo» («Ceci n’est point une bataille, est un
repos»)?

Come sospendere l’azione della battaglia mediante la contemplazione? Come sospendere il ritmo
dei galoppi che scandiscono il testo: «la scorta galoppava» («l’escorte prit le galop», «Fabrizio
galoppava sempre» («Fabrice galopait toujours»), «partimmo galoppando» («on partit au grand
galop»), «la scorta cadde ventre a terra» («l’escorte allait ventre à terre»)… Come riuscire a far
rendere conto contemporaneamente della specificità della battaglia, della velocità e dell’impegno
fisico dei corpi in movimento e della capacità di osservazione che caratterizza Fabrizio?
Innanzitutto attraverso il ritmo della frase, estremamente vivo, accelerato dall’assenza di connettori
logici, l’uso del discorso indiretto libero e l’inserimento dei dialoghi. Ma anche attraverso la
circolazione permanente dello sguardo che parte da Fabrizio, si posa sui feriti, sul maresciallo,
ritorna sugli ussardi che sono anche loro feriti, ritorna ai generali i quali, a loro volta, osservano uno
spettacolo che a noi sfugge.

…Fabrizio è un eroe in movimento…


Ciò non lascia alcun dubbio: la scena di battaglia pone la questione dello sguardo. Lo sguardo che
Stendhal ci invita a condividere avrebbe potuto essere quello di Trompette de hussards di Théodore
Géricault: l’ussaro si è fermato a guardare la battaglia ed ha sostituito l’azione con la
contemplazione, ma la sua solennità ieratica contraddice il dinamismo del testo romanesco. Perché
Fabrizio, essendo giovane, italiano, portato via, è un eroe in movimento. Dunque egli ci impone allo
stesso tempo il ritmo del suo cavallo ardente- un cavallo da generale che ha appena acquistato ad un
prezzo d’oro, e l’osservazione distaccata, esito del suo insolito sdoppiamento. Sdoppiamento della
pista e della scena, diffrazione di sé nell’osservazione e nell’azione. Questo dispositivo ci ricorda
qualcosa: non la scena di teatro shakespeariano e i suoi happy few (pochi felici), no, qualcosa di più
banale di cui il nostro secolo ha puramente e semplicemente dimenticato l’esistenza, ma che
costituisce il quotidiano dell’uomo del XIX secolo: il teatro del Circo olimpico i cui i grandi
spettacoli equestri hanno trasmesso quelli dei campi di battaglia! Stendhal li conosce e vi ha fatto
riferimento più volte. Senza dubbio li giudica severamente così come Gérard de Nerval, il quale
dedica loro una lunga analisi in Paris et alentours, senza dubbio è cosciente, come lui, che il Circo
olimpico può realizzare il sogno del re di Prussia, che pensa di dedicare «un teatro alla
rappresentazione dei più grandi avvenimenti storici di tutti i tempi».

Non si tratta evidentemente di affermare che il romanzo sceglie di imitare la scena del Circo
piuttosto di ricalcare la realtà, si tratta di sottolineare che gli spettacoli del Teatro olimpico hanno
permesso di proporre una soluzione alla difficoltà essenziale che presenta la rappresentazione della
scena di battaglia: associare movimenti delle truppe avverse e osservazione dominante o
contemplazione distaccata in uno stesso spettacolo. È a questa stessa sfida che il testo di Stendhal si
è interessato e ha proposto una soluzione comparabile, provocando l’invidia di un Balzac che non
riterrà più necessario redigere la sua battaglia.

A Parigi, una volta evoluta la legge sui teatri, il Circo olimpico è autorizzato a presentare delle
opere e, nel 1835, Franconi e Ferdinand Laloue, i direttori, hanno il permesso di fare agli Champs-
Elysées delle rappresentazioni equestri durante la bella stagione. Utilizzano anzitutto un’ampia
tenda al Carré Marigny, poi un circo costruito da Hittorf, che può contenere quattromila persone.
Un nuovo genere è nato: “l’hippodrame” , si tratta di un teatro di grande spettacolo dove la guerra è
rappresentata in dimensioni reali (“échelle réelle). Il genere richiede una pista, per le azioni di
cavalleria, una scena a parte per i dialoghi, e gli spalti per gli spettatori. Tra il 1807 (data
dell’entrata in vigore della legislazione napoleonica sui teatri) e il 1847, il repertorio del Circo
olimpico conta circa duecentocinquanta opere. Nel 1809, si rappresenta “La Belle Espagnole au
L’Entrée triomphale des Francais à Madrid” come anche “La Prise de Corogne ou Les Anglais en
Espagne”, e la bibliografia di Ferdinand Laloue contiene dei titoli del tutto eloquenti: Le Dernier
Voeu de l’Empereur in cinque quadri; L’Uniforme du grenadier. Tableau militaire in un atto;
Murat: tre atti, quattordici quadri; La Ferme de Montmirail; episodi dal 1812 al 1814. Pièce
militaire in tre atti e quattro quadri; L’Empire: tre atti e diciotto quadri…Un testimone racconta:

“Ra-ta-plan, il sipario si alzò; ra-ta-plan, lo stato Maggiore appariva a cavallo; ra-ta-plan, i


Francesi vincitori sfilavano davanti al generale; ra-ta-plan, tutti i personaggi dell’opera si
raggruppavano, in fondo, per la votazione, alla luce delle fiamme di Bengale. Cento comparse, “les
Alexandre à quarante sous de la soirée”, passavano, ripassavano, giravano, sparivano,
ritornavano in fretta, per rappresentare un’armata di centomila uomini. Pressoché invariabilmente
Edmond Galland portava le insegne di generale a capo, e l’allegro Lebel, in abiti da sergente,
tagliava la minestra, derideva un coscritto e corteggiava una vivandiera.
Poco dialogo, molte cannonante, molto fumo, odori di polvere stantia… e l’opera riusciva sempre –
nel bel mezzo delle grida de Vive la France! A cui l’intera sala faceva eco. Chiamatemi
nazionalista, se volete; ma ciò mi muoveva fino in fondo all’anima.”

(Cité par Caroline Hodak-Druel, in Daniel Roche [dir.], Le Cheval et La Guerre. Paris, Association
pour l’Accadémie d’art équestre de Versailles, 2002).

I testi autobiografici di Stendhal mostrano la sua conoscenza del circo (Mémoires d'un touriste):
“Vedete l'Errico IV del Pont-Neuf: è un coscritto che teme di cadere da cavallo. Il Luigi XIV del
luogo delle Vittorie e più sapiente: E’ Franconi che fa fare dei giri al suo cavallo davanti ad una
camerata completa”

(“Lyon, juin 1837”).

In Les Promenades dans Rome, raccontando l'attacco a una diligenza sulla strada da Napoli a
Capua, Stendhal fa riferimento a degli spettacoli precisi: “Questi briganti erano così comici che
pensavo a diverse scene di La Caverne, di Vieillard des Vosges, di la Diligence attaquée di
Franconi.”

in Lucien Leuwen, Stendhal riconosce le qualità di Franconi. L'estratto mostra come gli eroi del
circo hanno rimpiazzato quelli del Grande Esercito.

“Lui (Lucien) arriva davanti l’hotel di Pontlevé al gran trotto, e là precisamente il suo cavallo
inizia a galoppare in tondo e con fascino. Qualche chiamata di briglia, invisibile ai profani,
concessero al cavallo del prefetto, stupito dall’insolenza del suo cavaliere, dei piccoli movimenti di
impazienza affascinante per gli intenditori.

[…]

– il ciccione! Disse Ludwing Roller lasciando la finestra d’ira; sarà qualche scudiero della truppa
di Franconi, che Juillet avrà trasformato in eroe.”

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