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Série « Actes » n° 3

Pourquoi proposer la foi ?


Séduits par Dieu, fascinés par l’Évangile
Actes du 25ème colloque Européen des Paroisses
Mons, du 5 au 10 juillet 2009

Alphonse Borras et Luca Bressan (dir.)

Publié sur le site : www.pastoralis.org en janvier 2012


Pourquoi proposer la foi ?
Séduits par Dieu, fascinés par
l’Évangile

2
Table des matières

Table des matières .......................................................................................................... 3


Introduction – Luca Bressan ......................................................................................... 5
Joies et peines de la transmission de la foi aujourd’hui. Expériences des différents
groupes nationaux – Hubert Windisch ......................................................................... 9
Eine kurze Einführung in das Thema ....................................................................... 9
Qualitative Aspekte der Antworten ........................................................................ 12
Zusammenfassung .................................................................................................. 14
Wie religiös ist Europa? Reflexionen über die religiöse Situation in Europa –
Klaus Vellguth .............................................................................................................. 15
Religiosität in Europa ............................................................................................. 15
Zentrale Ergebnisse des Religionsmonitors 2008 .................................................. 17
Heterogenität der Religiosität ................................................................................ 20
Pastorale Herausforderung ..................................................................................... 21
Fazit ........................................................................................................................ 23
Pourquoi proposer la foi ? «Pour que notre (votre) joie soit complétée » (1Jn, 4) –
André Fossion ............................................................................................................... 24
Pourquoi proposer la foi? ....................................................................................... 24
Pour une intelligence théologique de la proposition de la foi ................................ 26
Pour un ajustement spirituel de la proposition de la foi: annoncer l’évangile de
manière évangélique. .................................................................................................. 31
Luoghi di trasmissione della fede Battesimo e pastorale battesimale – Serena
Noceti ............................................................................................................................. 36
Premessa ................................................................................................................. 36
Pastorale battesimale .............................................................................................. 38
Ritornare al principio ............................................................................................. 40
Chiarire le motivazioni e accettare la sfida ............................................................ 41
Principi ispiratori e criteri per l’azione pastorale ................................................... 42
Perché il battesimo sia luogo di trasmissione della fede: condizioni necessarie ... 43
Una scelta pastoralmente strategica ....................................................................... 44
La transmission de la foi aux jeunes – Lode Aerts .................................................... 45
Dieu prend son temps ............................................................................................. 45
Va au large ............................................................................................................. 47
Ouverture et identité ............................................................................................... 47
Pour une belle et simple liturgie............................................................................. 49
La Bible comme une parole vivante....................................................................... 50
Voyez comme ils s’aiment ..................................................................................... 52
Migrations : défis culturels et pastoraux – Marianne Goffoël ................................. 53
Une société multiculturelle et interconvictionnelle................................................ 53
Parmi les migrants…. un grand nombre de musulmans ........................................ 53
Dialogue ................................................................................................................. 56
Quel avenir pour un christianisme appelé à la rencontre avec l’Islam? ................. 58
Transmettre la foi : nos ressources aujourd’hui ? – Paul Scolas ............................. 60
« L’Evangile que je vous ai annoncé. » (1Cor 15, 1) ............................................. 60
Une culture du sujet et de la liberté ........................................................................ 62
Notre histoire comme ressource ............................................................................. 63
En guise de conclusion ........................................................................................... 65
Transmettre la foi : nos ressources aujourd’hui ? – Stijn Van den Bossche .......... 66
Introduction ............................................................................................................ 66
Regagner l’appel au coeur même du christianisme................................................ 67
Le sacerdoce commun de tous les fidèles .............................................................. 70
Le mariage .............................................................................................................. 73
De la croyance à la foi. Pour une Église en voie de dépouillement – Alphonse
Borras ............................................................................................................................ 77

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Introduction

Luca Bressan1

“Perché trasmettere la fede? Sedotti da Dio, affascinati dal Vangelo”. È questo il


titolo del convegno organizzato dal Colloquio Europeo delle Parrocchie (CEP), che si è
tenuto a Mons in Belgio, dal 5 al 10 luglio 2009. Nato nel 1961 dalla libera iniziativa di
due parroci, uno francese e uno tedesco, questo appuntamento biennale è giunto in
quell’occasione alla sua 25ª edizione, conservando intatte e in equilibrio la freschezza e
la gratuità che ne segnano in modo unico l’identità. Non appoggiato in modo diretto a
nessuna istituzione ecclesiale confessionale, ma favorevolmente sostenuto da più di una
tra queste, il Colloquio Europeo è nato con l’obiettivo di far incontrare i cristiani di ogni
regione del nostro continente, e di ogni confessione. Al centro ci stava la volontà di dare
forza e strumenti a quella struttura che rende il cristianesimo presente nel tessuto della
vita quotidiana degli uomini e delle donne anche del nostro tempo, la parrocchia
appunto, sviluppando un dialogo e una riflessione tra Chiese che potesse nutrire con una
partecipazione attiva la costruzione di un futuro sempre più ecumenico e solidale per il
cristianesimo europeo.

Immaginato cinquant’anni or sono, un simile obiettivo è ancora oggi il fine di ogni


appuntamento di questo organismo. E anche il colloquio di Mons si inserisce in questa
linea: lo dimostrano i quasi duecento partecipanti intervenuti, provenienti da tredici
nazioni europee (otto dell’Europa occidentale, e ben sette dell’Europa orientale).
Espressione di un cristianesimo che assume figure molto diverse all’interno dei vari
contesti sociali, queste persone si sono liberamente impegnate in un percorso di
riflessione che ha chiesto loro di prepararsi in modo autonomo e locale sul tema scelto,
arrivando poi a confrontare il pensiero elaborato all’interno dell’itinerario del
Colloquio. Ne è emersa una fotografia interessante e diversificata della situazione del
cristianesimo parrocchiale europeo, che pur senza assumere i crismi della
rappresentanza scientifica ha però permesso di toccare con mano molte delle sfide con
cui le diverse Chiese europee sono chiamate oggi a misurarsi.

Al riguardo, il tema scelto per questo appuntamento si prestava perfettamente al


compito indicato. Allo stesso tempo denso di significato, carico di domande e fonte di
più di una apprensione, il tema della trasmissione della fede ha portato in modo
immediato i partecipanti a confrontarsi su quella che si presenta come la sfida più forte
con cui il cristianesimo europeo è chiamato a misurarsi: la sua capacità di generare

1
Prêtre du Diocèse de Milan, est professeur de théologie pratique à la faculté et au Grand Séminaire de
Milan

5
futuro. Il tema scelto va letto infatti sullo sfondo di un contesto in cui, anche se con
modalità diverse, tutte le Chiese europee hanno scoperto che il compito di trasmissione
della fede non è più una pratica che va da sé, ma una sfida che richiede tante energie,
produce risultati non in linea con le attese, e genera incrinature e crisi nel nostro modo
di pensarci come cristiani.

A questa introduzione spetta il compito di introdurre le relazioni che leggerete, il


senso del percorso che vi faranno fare.

Punto di partenza di tutto il colloquio è stata la relazione del prof. H. Windisch


(docente emerito di teologia pastorale alla Facoltà di teologia di Freiburg im Bresgau),
incaricata di fare il legame tra il colloquio e i passi precedenti. Rileggendo i risultati del
lavoro preparatorio svolto dalle varie delegazioni europee, il prof. H. Windisch ha
aperto di fatto il colloquio rilanciando la portata della sfida che la trasmissione della
fede pone alle nostre comunità cristiane: non va più da sé questa trasmissione, perché
nelle nostre società europee non è più normale essere credenti; ci mancano gli strumenti
necessari per consegnare alle giovani generazioni ciò che abbiamo vissuto come
esperienza di fede e le tante conoscenze che la riflessione cristiana nella sua storia ha
saputo elaborare. Anche se gli stessi delegati, con le loro risposte, non hanno mancato di
fornire segnali che aprono al futuro: le energie che le nostre Chiese investono in questa
trasmissione rimangono comunque; si vive questa trasmissione non come un dovere,
come una conseguenza naturale del nostro vivere la fede, conseguenza che produce in
noi gioia; si cerca di ancorare sempre di più le nostre pratiche di annuncio alle Scritture,
alla loro lettura, al loro annuncio. La conseguenza obbligata di una simile situazione:
assumere in modo esplicito e voluto il concetto di missione come figura della fede del
nostro tempo. Siamo in un momento, ci ha ricordato il prof. Windisch, in cui la
missione non è più soltanto fuori la Chiesa ma anche dentro di essa.

Il concetto di missione si presentava così come una prima pista percorribile per
costruire una risposta alla sfida posta. Ma a rendere questa pista più accidentata ci ha
pensato la relazione del prof. K. Vellguth, professore di missiologia alla Facoltà
teologica di Vallendar. Disorientando non poco i partecipanti, il prof. Vellguth ha
mostrato come la nostra società sia tutt’altro che secolarizzata. La presentazione dei
risultati di una ricerca svolta di recente in ambito religioso (Religionsmonitor 2008,
ricerca svolta dalla fondazione Bertelsman) ci ha permesso di scoprire infatti come,
seppur con figure anche molto diverse, la domanda e la ricerca religiosa sono ancora
molto presenti nel continente europeo. Per via empirica abbiamo così potuto constatare
come il senso religioso, la domanda religiosa siano un fondamentale dell’identità
umana, a cui ogni singolo individuo cerca di dare risposta. E qui si sono scoperti i
problemi: i dispositivi comunicativi attualmente utilizzati dalle istituzioni ecclesiali
cristiane non riescono a intercettare se non in minima parte questa domanda, togliendo
al messaggio cristiano molta della forza missionaria che possiede.

Il prof. Vellguth ha mostrato con chiarezza che, pur abitando il paradigma della
missione, occorre evitarne una declinazione lineare a partire dallo schema domanda-
risposta (le istituzioni cristiane, il nostro annuncio come risposta diretta alle domande
che la gente ci pone, domande già strutturate nelle nostra lingua e già segnata dai
fondamentali antropologici cristiani). Il mondo religioso si è presentato in tutta la sua

6
ricchezza e la sua autonomia, come una sfida che obbliga l’esperienza cristiana ad
abitarlo, cercando forme e linguaggi nuovi per l’annuncio della nostra fede.

Medesima sensazione di disorientamento i partecipanti l’hanno provata ascoltando la


relazione del prof. A. Fossion, dell’istituto Lumen Vitae di Bruxelles. A lui era stata
assegnata la riflessione teologica fondamentale, perché ci aiutasse a porre le basi ultime
della trasmissione della fede, le sue esigenze, i suoi possibili modelli. L’ingresso nella
riflessione è stato ad effetto: argomentando a partire da una tesi paradossale (l’assoluta
gratuità della fede cristiana, e di conseguenza la sua “non necessità” storica, la sua
contingenza, se con fede intendiamo le figure storiche di professione di fede che essa ha
assunto), il prof. Fossion ha aiutato i partecipanti ad assumere un punto di vista più
corretto a partire dal quale impostare tutta la nostra riflessione. occorre infatti
riconoscere il primato, nell’esercizio della trasmissione della fede, all’opera dello
Spirito Santo che precede ed eccede qualsiasi nostra pratica di annuncio. È questo
quadro di conseguenza a fornire le caratteristiche delle pratiche cristiane di trasmissione
della fede: pratiche che devono mettere al primo posto l’esperienza di fede di colui che
è chiamato ad annunciare, così che – proprio grazie all’esperienza vissuta – possa
elaborare un discernimento e un giudizio sulla situazione in cui è chiamato ad
annunciare la fede che corrisponda il più possibile al giudizio di Dio, più che risultare
dominato dalle nostre paure. Simili pratiche di annuncio della fede dovranno poi
riconoscersi anche non soltanto per il contenuto evangelico, ma anche per lo “stile”
evangelico che le anima: dando primato alla testimonianza, ad un atteggiamento
diaconale nei confronti dell’uomo, di aiuto a che diventi veramente uomo, sperimenti in
modo pieno la sua identità, acquisendo in questo modo gli strumenti per riconoscere il
disegno di Dio sulla storia e la sua manifestazione in Cristo.

Il colloquio è proseguito concentrandosi nell’ascolto di luoghi e di esperienze


concrete di trasmissione della fede. Sono stati così toccati l’ambito della pastorale
battesimale, grazie alla riflessione di Serena Noceti (docente di teologia alla Facoltà
teologica dell’Italia centrale), l’universo della pastorale giovanile, ascoltando la
riflessione di Lode Aerts (incaricato della pastorale giovanile per la diocesi di Gand), il
mondo del dialogo interreligioso, in particolare del confronto con l’islamismo, grazie
alla testimonianza e alla riflessione di suor Marianne Goffoel (responsabile di Elkalima,
Centro cristiano per le relazioni con l’Islam, Bruxelles). Le suggestioni sono state
molte: una comunità cristiana chiamata a farsi carico in modo attivo e in prima persona
della trasmissione della fede alle nuove generazioni, rideclinando la delega in bianco
data in questo campo ai genitori, poco attrezzati per una sfida così esigente; un nuovo
modo di guardare ai giovani, che sa attendere, e che percorre le vie del fascino tipiche
del linguaggio liturgico (l’esperienza di Taizé come esempio), per poi abitare con loro il
luogo della nostra memoria, l’esperienza di fede raccontata dalle Scritture (e qui il
riferimento è andato all’esperienza delle Scuole della Parola del card. Martini a
Milano); un confronto con un universo religioso, quale quello islamico, che ci obbliga a
rivedere il nostro concetto di verità (alla luce del magistero del Vaticano II, che in
questo campo non è stato più di tanto recepito nei nostri contesti ecclesiali quotidiani), e
le vie attraverso le quali costruire veri percorsi di dialogo che tengano conto della
capacità di stima reciproca, di rispetto, dell’esigenza di approfondire sempre di più la
nostra fede per essere pronti a renderne ragione in modo non rigido ed impaurito ma
aperto al riconoscimento del luogo dell’altro.

7
Il colloquio si è concluso con due interventi che ci aiutassero a rilegger il percorso
fatto, mettendo in luce tutte le acquisizioni e le sfide che le riflessioni e il dibattito a
gruppi avevano suscitato in noi. Affidate a Stijn van den Bossche (professore di teologia
e delegato interdiocesano per la catechesi) e Paul Scolas (professore di teologia a
Louvain la Neuve), queste due riflessioni hanno centrato la tematica della trasmissione
della fede sul ruolo della testimonianza del cristiano. È proprio la vocazione cristiana,
termine capace di riassumere le Scritture e allo stesso tempo così impopolare nelle
nostre culture, il punto di partenza di ogni annuncio di fede: una vocazione riconosciuta
anzitutto nel suo tratto di santità (il sacerdozio battesimale di tutti i cristiani) che fa di
ognuno di noi un profeta, araldo del Regno che viene; una vocazione che vede nel
sacramento del matrimonio e nello stato di vita che ne consegue uno dei segni più chiari
e attualmente più capaci di annuncio: cosa c’è di maggiormente evangelizzante di una
vita matrimoniale vissuta alla luce dell’amore di Cristo, e dei tratti che questo amore
assume? P. Scolas ha continuato la riflessione mostrando come in questa linea sia
possibile assumere come strumento per la trasmissione della fede la nostra stessa storia
cristiana, la nostra storia di fede, terreno dentro il quale gli uomini della nostra cultura
possono trovare punti di aggancio e di intersezione con le loro storie e gli itinerari delle
loro ricerche di senso.

Come mostra in modo chiaro A. Borras, nelle parole di chiusura del colloquio, lo
scopo di tutto il colloquio è consistito nel guidare i partecipanti a comprendere in modo
sempre più chiaro la sfida alla quale è chiamata la Chiesa oggi: una purificazione della
sua fede, che l’aiuti ad essere sempre meglio testimone del Vangelo di Gesù Cristo agli
uomini del nostro tempo. A questo scopo è legato anche il lettore che si appresta a
cimentarsi nel viaggio appena descritto. Buona lettura e buon cammino di conversione

Luca Bressan

Nota Bene: i testi conservano la fragranza del colloquio. Non rivisti dagli autori, se
non per delle correzioni veloci, con la loro struttura tipica del linguaggio parlato
vogliono aiutare il lettore a situarsi nella dinamica del percorso chiesto ai partecipanti,
permettendo così di poter rivivere almeno in parte le emozioni suscitate al momento
della loro comunicazione, e – insieme alle emozioni – le riflessioni che sono sgorgate
durante il percorso del colloquio.

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Joies et peines de la transmission de la foi aujourd’hui.
Expériences des différents groupes nationaux

Hubert Windisch2

Eine kurze Einführung in das Thema


Der Titel „Warum den Glauben weitergeben?“ mag zunächst wie eine einfache
Informationsfrage klingen. Doch er enthält über den Aspekt der Information hinaus
auch einen Impuls, ist also gleichsam eine performative Frage, die somit zur Anfrage
wird: Was treibt uns eigentlich, den Glauben weiterzugeben? Warum können wir nicht
davon ablassen, den Glauben weiterzugeben? Was sind die innersten Gründe und nicht
nur die Inhalte einer Glaubensweitergabe? Schauen wir auf den Untertitel unserer
Tagung „Von Gott berührt, fasziniert vom Evangelium“, dann gibt dieser schon den
Blick frei für eine tragfähige Antwort auf die Anfrage des Titels, ganz im Sinne von
Apg 4,20: „Wir können nicht schweigen über das, was wir gesehen und gehört haben.“

Die Fragen an die CEP-Gruppen in den verschiedenen Ländern, die es zu


beantworten galt, um das Thema der Tagung konkret werden zu lassen, lauteten:

* Was bedeutet für uns „den Glauben weitergeben“? Mit dieser Frage soll nach dem
Wesen, nach der Substanz von Glauben und Glaubensweitergabe gefragt werden.

* Warum wollen wir heute den Glauben weitergeben? Mit dieser Frage werden die
Gründe für eine Glaubensweitergabe heute gesucht, um sie dann auch benennen zu
können.

* Wie können wir den Glauben heute weitergeben? Es braucht also auch geeignete
Wege und Methoden der Glaubensweitergabe, ansonsten erübrigt sich die grundsätzliche
Frage nach der Glaubensweitergabe heute.

Alle drei Fragen sollten von den Gruppen in folgenden Koordinaten beantwortet
werden:

* Von welchen positiven und auch negativen Erfahrungen bezüglich der


Glaubensweiter-gabe heute können wir berichten?

* Welche Tätigkeiten in bezug auf die Glaubensweitergabe können wir aufzählen?

2
Ordentlicher Universitätsprofessor (Pastoraltheologie) an der Theologischen Fakultät der Albert-
Ludwigs-Universität in Freiburg.

9
* Welche Wünsche, Sehnsüchte und Erwartungen verbinden wir mit der
Glaubensweiter-gabe heute?

Schaubild 1

Quantitative Aspekte der Antworten

Ein eher quantitativer Zugriff auf die Rückmeldungen aus den Gruppen lässt
folgende Daten und Merkmale erkennen:

Es gab insgesamt 30 Rückmeldungen aus 7 Ländern (Deutschland, Österreich,


Schweiz, Belgien, Frankreich, Italien, Spanien/Katalonien). 15 Rückmeldungen
stammen dabei aus dem deutschen Sprachraum und 15 Rückmeldungen aus dem
romanischen Sprachraum.

10
Schaubild 2

Quantitativer Zugriff auf die Rückmeldungen

 30 Rückmeldungen aus folgenden 7 Ländern:

Österreich
Schweiz 15 aus dt. Sprachraum
Deutschland

Belgien
Frankreich
Italien 15 aus rom. Sprachraum
Spanien
(Katalonien)

Im einzelnen handelt es sich um Rückmeldungen von Gruppen oder Einzelpersonen.


Sie lassen sich folgendermaßen aufschlüsseln:

Schaubild 3

 davon

Österreich: 2 (Gruppen oder einzeln nicht erkennbar)


Schweiz: 1 (Gruppe)
Deutschland: 12 (nur einzeln)

11
Belgien: 2 (1 Gruppe, 1 einzeln)
Frankreich: 5 (4 Gruppen, 1 einzeln)
Italien: 4 (nur einzeln)
Spanien: 4 (3 Gruppen, 1 einzeln)

Umfang und Stil der Rückmeldungen differieren stark zwischen langen, sehr
persönlichen Berichten in Briefform und eher kurzen, thesenartigen
Zusammenfassungen von Gruppensitzungen und –reflexionen. Dabei fallen auch
bemerkenswerte Unterschiede zwischen den Antworten aus dem romansichen und den
Antworten aus dem deutschen Sprachraum auf: Während in den Rückmeldungen aus
dem deutschen Sprachraum fast durchweg der Ich-Stil und eine eher subjektivierende
Einstellung zur Kirche und zum kirchlichen Glauben vorherrschen, zeichnen sich die
Rückmeldungen aus dem romanischen Sprachraum durch einen kommunialen Wir-Stil
und eine eher objektivierende Einstellung zur Kirche und zum kirchlichen Glauben aus.

Schaubild 4

 Umfang/Stil:

● lange persönliche Rückmeldungen (Briefform)

oder

● kurze systematische Zusammenfassungen von Gruppenreflexionen

 Nuancen:

● dt. Sprachraum: ● rom. Sprachraum:

Ich-Stil Wir-Stil

Subjektivierende Einstellung Objektivierende Einstellung

zu Kirche/Glaube zu Kirche/Glaube

Qualitative Aspekte der Antworten


Nun kommen wir zur qualitativen Aufschlüsselung der 30 Rückmeldungen der CEP-
Gruppen aus den 7 Ländern und damit zum Hauptaugenmerk meiner Analyse.

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3.1 Zunächst fällt in allen Rückmeldungen der häufige Bezug zur Heiligen Schrift
auf. Das ist eine erfreuliche und ermutigende Feststellung, zeigt sie doch, wie sehr alle
Männer und Frauen, die geantwortet haben, im wahrsten Sinn des Wortes biblische
Männer und Frauen sind bzw. sein wollen. Ferner wird bei allen Aussagen deutlich,
dass die Freude am Glauben die Schwierigkeiten seiner Weitergabe überwiegt. Auch
das ist eine hoffnungsfrohe Tatsache für die Zukunft. Und schließlich kann aufgrund der
Rückmeldungen erkannt werden, dass in bezug auf die Weitergabe des Glaubens quer
durch Europa viel getan und unternommen wird. Aufgrund ihres Einsatzes zeigen die
Einzelpersonen und Gruppen in ihren Briefen an mich, wie sehr sie kostbare Salzkörner
und helle Lichter (vgl. Mt 5,13-16) und immer wieder neuer Sauerteig der Frohen
Botschaft Jesu in dieser unserer Welt sind (vgl. Mt 13,33; 1 Kor 5,7-8).

3.2 Auf die Frage, was Glaubensweitergabe im Kern bedeute, kann man in den
Rückmeldungen grundsätzlich zwei Charakterisierungen erkennen: Zum einen ist
Glaubensweitergabe nichts anderes als die Teilgabe an der eigenen Teilhabe des
Lebenswerkes Jesu Christi. Und zum anderen bedeutet den Glauben weiterzugeben
letztlich Leben weiterzugeben (vgl. Joh 10,10). Glaubensweitergabe ist also nicht nur
Theorie, sondern Praxis, ist nicht nur ein Für-wahr-halten, sondern im innersten ein Die-
Wahrheit-tun. Wer den Glauben weitergibt, will nach 1 Joh 3,18 nicht nur mit Wort und
Zunge lieben, sondern in Tat und Wahrheit (vgl. auch Joh 3,21; Joh 8,32; 1 Petr 1,22).

3.3 Warum aber den Glauben weitergeben? Weil er ein kostbarer Schatz ist (vgl. Mt
13,44-46; 1 Petr 1,18-19). In Christus sind ja nach Paulus „alle Schätze der Weisheit
und Erkenntnis verborgen“ (Kol 2,3). Gemäß einem alten scholastischen Axiom
(„bonum diffusivum sui“) kann man aber, wenn man wirklich lieben und gut sein will,
Kostbares nicht für sich behalten. Es möchte mitgeteilt und geteilt werden. Auch auf
den geschenkhaften, auf den gnadenhaften (gratia) Charakter von Glauben wird
aufmerksam gemacht: Umsonst (gratis) haben wir empfangen, umsonst (gratis) sollen
wir auch geben (vgl. Mt 10,8; 1 Kor 4,7). Klingen diese beiden Aspekte (Kostbarkeit
und Gnadenhaftigkeit) zusammen, dann entsteht in bezug auf die Glaubensweitergabe
eine innere und äußere Verpflichtung, die in einem Paradox als „freier Zwang“
beschrieben werden kann. Ich kann gar nicht mehr anders, als den Glauben
weiterzugeben, und ich tue es aus freien Stücken, aus Überzeugung. „Wenn ich das
Evangelium verkünde, kann ich mich deswegen nicht rühmen; denn ein Zwang liegt auf
mir. Weh mir, wenn ich das Evangelium nicht verkünde!“ schreibt Paulus in seinem
ersten Brief an die Gemeinde von Korinth (9,16).

3.4 Wenn man nach den Wegen der Glaubensweitergabe fragt, nach Methoden und
Formen der traditio fidei, nach den Möglichkeiten, den Glauben heute wie Samenkörner
auszusäen, wird in allen Rückmeldungen – vielleicht unbewusst – auf das Apostolische
Schreiben „Evangelii Nuntiandi“ von Paul VI. aus dem Jahre 1975 Bezug genommen.
In diesem Schreiben steht an erster Stelle verschiedener Stufen der Verkündigung in
heutiger Zeit das Zeugnis der Christen. Und zwar ist dieses Zeugnis zuallererst das
Zeugnis des Lebens, bevor es auch zum Zeugnis des Wortes werden kann. Wort und Tat
bedingen sich gegenseitig bei der Glaubensweitergabe. Wir müssen also christlich
leben, damit wir auch nach dem Grund unseres Glaubens und unserer
Glaubenshoffnung befragt werden können (vgl. 1 Petr 3,15-16). Dieses Zeugnis weist
eine ganz persönliche und auch eine notwendige institutionelle Dimension auf.
Christsein in der Welt geht nicht ohne Kirchesein und umgekehrt. Freilich wird immer

13
auch in den Rückmeldungen davor gewarnt, Methoden der Glaubensweitergabe zum
Selbstzweck werden zu lassen, zu einem sich verselbständigenden Spiel, das
zuguterletzt nicht mehr dient und nützt. Jede Methode ist schon rein dem Wortsinn nach
ein Durchgang (griechisch: meta hodos), ein Instrument, mit dem man ein Ziel erreichen
kann. Was aber ist das Ziel jeder Glaubensweitergabe? Es ist letztlich die heilsame
Begegnung zwischen Jesus Christus und den Menschen in der Lebenswelt von heute.

Zusammenfassung
Zum Abschluß erlaube ich mir, einige generelle Linien, die in den Rückmeldungen
erkennbar werden, zu unterstreichen. Wir müssen bei allen Unterschieden nach Ländern
und Personen sehen, dass die Herausforderung der Glaubensweitergabe heute ein
europäisches Phänomen ist. Es gibt keine Insel der Seligen mehr. Christlich zu glauben
und den christlichen Glauben weiterzugeben ist – mutatis mutandis – nicht mehr
selbstverständlich. Nirgendwo. Das mag man bedauern. Gleichzeitig jedoch ist damit
zum ersten Mal seit Konstantin dem Großen auch wieder ein ungewohntes neues Maß
an persönlicher und institutioneller Freiheit gegeben, sowohl den Glauben zu leben als
auch weiterzugeben. Nutzen wir die Chance der Freiheit für unseren Glauben!

Ratlos macht sicher viele Eltern und Großeltern der gewaltige Traditionsabriß in
bezug auf den Glauben in Ehe und Familie und bei Kindern und Jugendlichen. Doch
könnte in diesem Phänomen auch die Chance stecken, sowohl unsere Glaubensvollzüge
als auch unsere Glaubensinhalte zu verwesentlichen und zu elementarisieren. Die
nachwachsenden Generationen brauchen in einer immer komplizierter werdenden Welt
und in immer unübersichtlicheren Lebenszusammenhängen laut Jesus das eine
Notwendige zum Überleben (vgl. Lk 10,38-42).

Und schließlich fehlt vielen Gutgewillten (gerade auch unter denen, die mir
geschrieben haben) oftmals das geeignete Instrumentarium, um Rechenschaft vom
eigenen Glauben geben zu können. Vor allem fehlt vielen die Gefährtenschaft. Sie sind
oft so allein. Worin besteht die Chance dieser Erfahrung? Christliche Freundschaften
sind angesagt, kleine Gemeinschaften sollten so manchem eine Stütze für seinen
Glauben sein und pastorale Einfachheit hinsichtlich der Methoden der
Glaubensweitergabe könnte mehr Menschen zum Zeugnis von Jesus Christus
ermutigen.

Ohne Zweifel leben wir in einer uns neu zugemuteten missionarischen Situation, und
das nicht nur in die Welt, sondern auch in die Kirche selbst hinein. Ist es nicht auch
schön und spannend, diese Zumutung der Glaub-Würdigkeit unseres Christseins zu
erfahren und sich ihr zu stellen? Ein Wort- bzw. Buchstabenspiel (das leider nur in der
deutschen Sprache greift) von Bischof Joachim Wanke aus Erfurt soll uns trostvoll in
die Zukunft entlassen: Unsere Zeit, so sagt er einmal, ist nicht unchristlicher, sondern
urchristlicher geworden.

14
Wie religiös ist Europa?
Reflexionen über die religiöse Situation in Europa

Klaus Vellguth3

Wenn im folgenden der Frage nachgegangen werden soll, wie religiös Europa
tatsächlich ist, so soll dies in drei Schritten geschehen. In einem ersten Schritt wird die
Religiosität in Europa phänomenologisch beleuchtet, in einem zweiten Schritt wird
herausgearbeitet, inwiefern die Religiosität in Europa sich äußerst heterogen darstellt
und quer zu den Ländergrenzen die Gesellschaften durchschneidet, und in einem dritten
Schritt werden schließlich die pastoralen Herausforderungen herausgearbeitet, die sich
aufgrund der religiösen Großwetterlage in Europa ergeben. Doch zunächst einmal zur
Religiosität in Europa.

Religiosität in Europa
Im Jahr 2008 erschien der Religionsmonitor der Bertelsmann-Stiftung, der in einem
weltweit angelegten Projekt die Religiosität in der sich globalisierenden Welt evaluiert.
Dieser Religionsmonitor, der vermutlich die umfangreichste Studie darstellt, die bislang
zur Frage der Religiosität in verschiedenen Ländern erstellt worden ist, versteht sich als
ein Instrument zur interdisziplinären Analyse von religiösen Dimensionen in der
Gesellschaft. Dabei fließen in dieser Analyse sowohl soziologische als auch
kulturwissenschaftliche und theologische Dimensionen ein. Befragt wurden im Rahmen
dieser Studie insgesamt 21.000 Frauen und Männer in 21 Ländern. Mit Blick auf
Europa wurde diese Befragung durchgeführt in Deutschland, Frankreich,
Großbritannien, Italien, Österreich, Polen, Russland, Schweiz und Spanien. Damit legt
die Studie in Europa einen spezifischen regionalen Fokus auf Zentraleuropa, wobei die
Beneluxstaaten ausgeklammert worden sind.4 In Osteuropa wurde bislang nur die
Religiosität in Polen im Rahmen der Studie berücksichtigt. Über Osteuropa hinaus
wurde die Studie mit dem gleichen Studiendesign auch in Australien, Brasilien,
Guatemala, Indien, Indonesien, Israel, Marokko, Nigeria, Süd-Korea, Thailand und den
Vereinigten Staaten durchgeführt.

Um die Religiosität der Bevölkerung in den verschiedenen Ländern zu messen,


berücksichtigt die Studie sechs verschiedene Kerndimensionen von Religiosität:

 Intellekt

3
Professor für Missionswissenschaft an der Philosophisch-Theologischen Hochschule Vallendar.
4
Bislang legt die Studie einen regionalen Fokus auf Zentraleuropa, doch ist geplant, dass die Studie
künftig auch auf bislang noch nicht berücksichtigte Länder ausgeweitet wird.

15
 Glaube/Ideologie

 Öffentliche Praxis

 Private Praxis

 Religiöse Erfahrung

 Konsequenzen

Unter der Kerndimension „Intellekt“ misst der Religionsmonitor das Interesse der
Menschen an religiösen Themen. Dies geschieht dadurch, dass religiöse Überlegungen,
religiöse Suchbewegungen und die spirituelle und religiöse Lektüre der Bevölkerung
gemessen wird.

Unter der Kerndimension „Glaube/Ideologie“ wird der Glaube an Gott bzw. an etwas
Göttliches verstanden. Diese Kerndimension wird dadurch gemessen, dass die
Menschen zu ihren Gottesbildern, Weltbildern, zum religiösen Pluralismus, zum
religiösen Fundamentalismus und sonstigen religiösen Vorstellungen befragt werden.

Unter der Kerndimension „Öffentliche Praxis“ versteht der Religions-monitor die


den privaten Raum übersteigende religiöse Praxis, also dem Gottesdienstbesuch, die
Teilnahme an Gemeinschaftsgebeten bzw. den Besuch des Tempels.

Unter der Kerndimension „Private Praxis“ versteht der Religionsmonitor das Gebet
und die Meditation und berücksichtigt darüber hinaus weitere Aspekte wie
Pflichtgebete, Praktiken eines Hausaltars etc.

Unter der Kerndimension „Erfahrung“ fasst der Religionsmonitor den Aspekt der
Du-Erfahrung bzw. Einheitserfahrung (Kosmisierung) sowie der religiösen Gefühle der
Menschen zusammen. Dieser Aspekt der Erfahrung ist mit Blick auf die Religiosität
von entscheidender Bedeu-tung, da Religion nur dann eine Tiefenwirkung hat, wenn sie
nicht als eine kognitive Lehre bzw. Ideologie rezipiert wird, sondern auf der
Erfahrungsebene einen ganzheitlichen Zugang ermöglicht. So hat Stefan Knobloch in
seinem Buch „Mehr Religion als gedacht!“ zuletzt darauf verwiesen, dass gerade die
Erfahrung eine wesentliche religiöse Dimension besitzt: „Die Lehren einer religiösen
Gruppe werden für das Subjekt nur insofern relevant, als sie den Filter der eigenen
Erfahrungs-evidenz durchlaufen haben.“5 Mit dieser Betonung der Erfahrung knüpft
Knobloch an Überlegungen von Karl Rahner, dem größten deutschen Theologen des 20.
Jahrhunderts an, der bereits in einem vor knapp 40 Jahre gehaltenen Vortrag darauf
verwies: „Erfahrung als solche und die begrifflich objektivierende Reflexion auf solche
Erfahrung sind zwar nie absolut getrennt, aber diese beiden Größen Erfahrung und
objektivierende Reflexion auf sie sind auch nie identisch. Die Reflexion holt die
ursprüngliche Erfahrung nie ganz ein.“6 Gerade Karl Rahner, der eine Koryphäe im

5
Knobloch, Stefan, Mehr Religion als gedacht! Wie die Rede von der Säkularisierung in die Irre
führt, Freiburg 2006, 87.
6
Rahner, Karl, Vortrag an der Katholischen Adademie Koblenz vom 22.10.1969. Publiziert in:
Schriften zur Theologie, Bd. IX, Einsiedeln 1970, 161-176.

16
Bereich der theologischen Reflexion war, war sich in aller Bescheidenheit bewusst, dass
die Reflexion sich stets nachgelagert zu sehr viel bedeutsameren religiösen Erfahrungen
verhält. Aus diesem Grund muss der Kerndimension „Erfahrung“, die der
Religionsmonitor als eine von sechs Kerndimensionen betrachtet, eine besondere
Relevanz zukommen.

Unter der Kerndimension „Konsequenzen“ misst der Religionsmonitor die


allgemeine Alltagsrelevanz der Religion. Dabei bezieht er sich auf die Relevanz der
Religion in verschiedenen Lebensbereichen, z.B. in der Familie, der Politik, der
Kindererziehung, der Sexualität etc.

Um diese sechs Kerndimensionen angemessen zu erfassen, wurden im Rahmen der


Erhebung insgesamt fast 100 Fragen formuliert, die sich auf die verschiedenen
Kerndimensionen beziehen. Das Ergebnis dieser (weltweiten bzw.) europaweiten
Befragung war beeindruckend:

Zentrale Ergebnisse des Religionsmonitors 2008


Der Religionsmonitor weist darauf hin, dass Europa nach wie vor vom christlichen
Glauben geprägt ist. Drei Viertel aller Europäer (74%) in den erhobenen Ländern sind
religiös, ein Viertel (25%) sogar hochreligiös. Nur 23% der Europäer bezeichnen sich
als nichtreligiös. Die christlichen Konfessionen sind dabei so dominant, dass der
Religionsmonitor aufgrund der geringen Fallzahlen keine repräsentativen Aussagen
über andere Religionen machen kann. Dabei zeigt sich jedoch auch, dass Religiosität
vor allem besonders ausgeprägt ist in den Bereichen der intellektuellen
Auseinandersetzung, der Beschäftigung mit dem Glauben und der Reflexion der
eigenen Religiosität. Darüber hinaus ist Religiosität auch geprägt durch individuelle
religiöse Praktiken wie dem Gebet bzw. theistischen Spiritualitätsmustern. Dies führt
dazu, dass die Menschen in Europa sich sowohl als religiös als auch als spirituell
erleben und ein religiöses bzw. spirituelles Selbstbild besitzen.

Der Religionsmonitor zeigt, dass Religion tatsächlich eine konstitutive Konstante für
das Leben in den europäischen Ländern darstellt. Gerade mit Blick auf die Diskussion
um die Verankerung des Gottesbegriffs in der Europäischen Verfassung erstaunt
zunächst einmal die Feststellung: „Religion bildet eine wichtige Klammer für das
europäische Zusammenwachsen. Sie beeinflusst das persönliche und soziale Leben in
allen Ländern, wenn auch in unterschiedlicher Intensität.“7 Dabei wird ausgeführt,
welche einheitsstiftende Bedeutung Religion für das Leben der Menschen besitzt:
„Religion kann aus einem gemeinsamen Wertekanon schöpfen, z.B. im Umgang mit
wichtigen Lebensereignissen wie Geburt, Partnerschaft, Tod oder nach Fragen nach
dem Sinn des Lebens.“8

7
Bertelsmann-Stiftung, (Hg.), Religionsmonitor 2008. Überblick zu religiösen Einstellungen und
Praktiken, Gütersloh 2008, 4.
8
Bertelsmann-Stiftung, (Hg.), Religionsmonitor 2008. Überblick zu religiösen Einstellungen und
Praktiken, Gütersloh 2008, 4.

17
Interessant ist, die Religiosität in Europa noch einmal konfessionell zu
differenzieren. Unter den Katholiken bezeichnet sich sogar jeder Dritte (33%) als
hochreligiös, nur 11% der Katholiken bezeichnet sich selbst als nichtreligiös. Unter den
Protestanten bezeichnen sich fast jeder Fünfte (18%) als hochreligiös, 16% der
Protestanten würden sich selbst als nichtreligiös betrachten.

Auch wenn diese Aussagen zur Religiosität in Europa zunächst einmal auf ganz
Europa zutreffen, zeigt sich auch, dass sich in Europa keine homogene Religiosität
nachweisen lässt. Es lässt sich tatsächlich ein starkes religiöses Gefälle feststellen. Dies
Gefälle kann man zunächst einmal regional beobachten. Die stärkste religiöse
Verwurzelung konnte in Polen und in Italien gemessen werden. Die geringste religiöse
Verwurzelung wurde in Frankreich nachgewiesen. Hier zeigt sich, welch eine
Bedeutung ein explizit laizistisches Verständnis einer Gesellschaft auch auf die
Entwicklung der Religiosität besitzt.

Erstaunlich ist mit Blick auf die Religiosität in Europa: Selbst bei den
Konfessionslosen wurde das Phänomen der Religiosität gemessen. Und mehr als ein
Viertel der konfessionslosen Befragten in Europa ist nach Aussage des Bertelsmann
Religionsmonitors 2008 religiös. Besonders verbreitet ist dieses Phänomen, dass
konfessionslose Menschen dennoch als religiös eingestuft werden können, in der
Schweiz bzw. in Italien. Dort konnten 9% bzw. 6% der Konfessionslosen als
hochreligiös identifiziert werden.

Interessant ist, die Religiosität nicht nur in ihrer Gesamtheit in Europa zu betrachten,
sondern auch einmal nach den jeweiligen Kerndimensionen zu differenzieren. Zunächst
einmal zu den beiden Kerndimensionen Intellekt bzw. Glaube/Ideologie: Mehr als zwei
Drittel der Befragten in Europa (68%) glauben, dass ein Gott bzw. etwas Göttliches
existiert. Sie glauben auch, dass es in irgendeiner Form ein Weiterleben nach dem Tod
gibt. Besonders ausgeprägt ist dieser Glaube – dies mag nach dem bisher Gesagten nicht
weiter verwundern – in Polen und in Italien. Besonders schwach ausgeprägt ist dieser
Glaube an Gott oder etwas Göttlichem tatsächlich in Frankreich.

Mit Blick auf die beiden Kerndimensionen öffentliche Praxis bzw. private Praxis
stellt der Religionsmonitor fest, dass fast zwei Drittel der Befragten in Europa (61%)
das persönliche Gebet praktizieren. Und mehr als die Hälfte der Befragten (57%)
nehmen mehr oder weniger regelmäßig an Gottesdiensten teil. Auch hier zeigt sich
wieder, dass die private Praxis des Gebets vor allem in Italien und Polen überdurch-
schnittlich stark beheimatet ist. Die etwas weniger konfessionell gebundene private
Praxis der Meditation hingegen ist in Polen kaum, dafür in Italien wiederum
überdurchschnittlich stark verbreitet. In Italien und Polen konnten wiederum die
höchsten Werte für die Frage nach der öffentlichen Praxis des Glaubens gemessen
werden, während zur öffentlichen Praxis in Frankreich und Großbritannien auffallend
niedrige Werte gemessen werden konnten.

Interessant ist an dieser Stelle ein Vergleich zwischen Europa und den USA mit
Blick auf die öffentliche Praxis Dieser Vergleich relativiert die überraschend hohen
Werte, die der Religionsmonitor zur öffentlichen Praxis in Europa ausweist. Auch wenn
sich in Europa gerade unter der katholischen Bevölkerung eine überraschend starke
öffentliche Praxis feststellen lässt (74% nehmen mehr oder weniger regelmäßig an

18
Gottesdiensten teil), übersteigt der Wert in den USA bei der katholischen Bevölkerung
mit 89% den europäischen Wert deutlich. Dieses Bild ergibt sich auch bei einem
Vergleich der öffentlichen Praxis zwischen der protestantischen Bevölkerung in Europa
und den USA. Hier ist der Unterschied sogar noch signifikanter. Während in Europa
53% der Protestanten mehr oder weniger regelmäßig an Gottesdiensten teilnehmen,
beträgt dieser Wert in den USA immerhin 90%. Und selbst bei den Menschen, die
keiner Konfession angehören, nehmen in Europa „nur“ 7% an Gottesdiensten teil,
während in Amerika 22% sich zu einer öffentlichen Praxis ihrer Religiosität bekennen,
auch wenn sie selbst keiner Konfession angehören.

Mit Blick auf die religiöse Erfahrung zeigt der Religionsmonitor, dass Religiosität
oder religiöse Erfahrung sich bei den Menschen in Europa in erster Linie in
Empfindungen der Erfurcht, Geborgenheit, Dankbarkeit, Liebe und Hoffnung
ausdrückt. Deutlich geringer ausgeprägt sind religiöse Empfindungen wie Schuld, Angst
und Zorn. Hier zeigt sich, dass die Menschen von einem positiven, eher befreienden
Gottesbild ausgehen, das keine bedrückende, sondern eher befreiende Perspektiven
besitzt.

Mit Blick auf die Kerndimension „Konsequenzen“ zeigt der Religionsmonitor, dass
im Bereich der Erziehung der Kinder die Religiosität für die Menschen in Europa eine
deutlich stärkere Bedeutung besitzt als beispielsweise im Bereich der politischen
Einstellungen bzw. der Sexualität. Hier lassen sich aber auch wiederum nationale
Differenzen aufzeigen. Während in Polen beispielsweise die Frage der Erziehung der
Kinder sehr stark von der Religiosität der Bevölkerung geprägt ist, während die
politische Einstellung sich davon abgekoppelt hat, ist die Bedeutung der Religiosität für
die Erziehung der Kinder selbst im stark religiös geprägten Italien deutlich geringer. Die
geringste Bedeutung der Religiosität für politische Entscheidungen bzw. für den
Bereich der Sexualität hat die Religion in Frankreich. Insgesamt zeigt die Erhebung
über die Konsequenzen der Religiosität für das konkrete Leben, dass sich die Befragten
in Europa vor allem in den Bereichen Politik und Sexualität nicht an ihren Glauben
gebunden fühlen und keinen Zusammenhang mit ihrer Religiosität sehen.

Erfreulich ist, dass der Religionsmonitor selbst unter den jungen Erwachsenen nicht
weniger Europäer als religiös identifiziert als in der Gesamtbevölkerung. Diese
Aussagen des Religionsmonitors sind keine Zufallsergebnisse einer einzelnen Studien,
sondern decken sich weitgehend mit anderen Parallelstudien. Hier wären vor allem die
beiden Studien „Kehrt die Religion wieder an?“9 und die Studie „Church and Religion
in an Enlarged Europe“10 zu nennen.

Als Fazit der Analysen des Religionsmonitors 2008 kann also festgehalten werden,
dass entgegen einem weitverbreiteten Empfinden das Leben der Menschen in Europa zu
Beginn des dritten Jahrtausends von einer starken Religiosität geprägt ist. Letztendlich

9
P.M. Zulehner / Isa Hager / Regina Polak, Kehrt die Religion wieder? Religion im Leben der
Menschen 1970-2000, Ostfildern 2001.
10
Church and Religion in an Enlarged Europe 2006. Das von der Volkswagen-Stiftung finanzierte
Projekt wird am Lehrstuhl für Vergleichende Kultursoziologie der Europa-Universität Viadrina
(Frankfurt/Oder) durchgeführt.

19
handelt es sich bei dieser stark ausgeprägten Religiosität um einen Gegentrend zu einem
Menschenbild, bei dem der Mensch „auf eine klonbare Biomasse, auf einen
wertschöpfenden Wirtschaftsfaktor reduziert wird.“ (Matthias Horx). Mit seiner These
von der Respiritualisierung der Gesellschaft knüpft Horx an Überlegungen zur De-
Säkularisierung (Peter L. Berger), De-Privatisierung (José Casanova) bzw. der
Rückkehr der Religionen (Martin Riesbrodt) an. Gotthard Fuchs, ein deutscher
Theologe, schloss sich dieser These zuletzt an und bemerkte: „Wo alles in den Wirbel
der Kontingenzen und Zufälligkeiten gerät, wächst der Wunsch nach letzten
Gewissheiten, nach letzten Geltungen. Wo gar von der Diktatur des Relativismus
gesprochen werden muss, entsteht neu die Suche nach Absolutem.“11

Letztendlich deckt sich die These von der spirituellen Durchdringung der
Gesellschaft mit den Aussagen der Konzilsväter, die darauf verwiesen haben, dass alle
Menschen mit religiösen Grundfragen konfrontiert werden: „Was ist der Mensch? Was
ist denn nun Ziel unseres Lebens? Was ist das Gute, was ist die Sünde? Woher kommt
das Leid und welchen Sinn hat es? [...] Und schließlich: Was ist jenes letzte und
unsagbare Geheimnis unserer Existenz, aus dem wir kommen und wohin wir gehen?“12
Und an anderer Stelle formulieren die Konzilsväter: „Sie (sic. die Kirche) weiß darum,
dass der Mensch unter dem ständigen Antrieb des Geistes Gottes niemals dem Problem
der Religion gegenüber gleichgültig sein kann [...].“13

Heterogenität der Religiosität


Der Religionsmonitor von Bertelsmann zeigt mit Blick auf Europa, dass Europa zum
einen sehr stark religiös geprägt ist, dass es aber mit Blick auf die verschiedenen Länder
Europas erhebliche Unterschiede sowohl in der Ausprägung als auch Intensität von
Religiosität zu beobachten ist. Diese Heterogenität der Religiosität ist jedoch nicht nur
territorial zu beobachten, die Heterogenität des Glaubens kann auch in den einzelnen
Gesellschaften beobachtet werden. Dies hat zuletzt eine Studie eindrucksvoll belegt, die
in der Bundesrepublik Deutschland veröffentlicht worden ist. Die sogenannte Sinus-
Milieu-Studie „Kirchliche und religiöse Kommunikation in den Sinus-Milieus® 2005“
hat die Gesellschaft der Bundesrepublik Deutschland sowohl mit Blick auf ihre soziale
Schichtung als auch mit Blick auf die von den Menschen vertretenen Werte analysiert.
Damit handelt es sich um eine differenzierte Untersuchung der Gesellschaft, die sowohl
den jeweiligen Lifestyle als auch die semiometrischen Variablen berücksichtigt. Das
Ergebnis dieser Milieu-Studie war, dass die deutsche Gesellschaft in zehn verschiedene
Milieu-Gruppierungen differenziert werden kann. Mit Blick auf die religiöse bzw.
kirchliche Verwurzelung dieser zehn Milieus ließ sich nachweisen, dass die Kirche nur
noch Kontakt zu drei der insgesamt zehn Milieus besitzt: zum Milieu der
„Konservativen“, zum Milieu der „Traditionsverwurzelten“ und zum Milieu der
„Bürgerlichen Mitte“. Zu allen anderen insgesamt sieben Milieus hat die Kirche den
Anschluss verloren. Dies ist besonders tragisch, da vor allem die Milieus, in denen

11
Fuchs, Gotthard, Zwischen Wellness und Weisheit. Neue Begeisterung für die Mystik, in: HK
spezial, Renaissance der Religion. Mode oder Megathema?, November 2006, 32-36, 34.
12
Nostae Aetate 1
13
Gaudium et Spes 41

20
Jugendliche heute beheimatet sind und die vermutlich in Zukunft an Bedeutung
gewinnen werden, jeglichen Kontakt zur Kirche verloren haben. Eckhart Bieger, der
sich intensiv mit dieser Studie befasst hat, hält fest: „Mit der Art, wie die Kirche
Gottesdienste feiert, wie sie in den Medien präsent ist und wie sie überhaupt ihr
gemeinschaftliches Leben organisiert, schließt sie vor allem die jungen Milieus aus. Es
gibt, wenn man diesen Seelsorgestil weitermacht, keine Hoffnung, dass die Jüngeren
mitmachen.“

Pastorale Herausforderung
Auch wenn der Religionsmonitor 2008 darauf hinweist, dass die Menschen in
Europa religiös bzw. hochreligiös sind, ist die Religiosität also immer weniger kirchlich
beheimatet. Die pastorale Herausforderung besteht nun darin, sich dieser Situation zu
stellen, und nicht resignativ auf den Verlust an Kirchlichkeit zu reagieren, sondern
pastorale Konzepte zu entwickeln, die an der Religiosität der Menschen in Europa
anknüpfen und sie in einen Dialog mit der christlichen Botschaft bringen. Konkret
handelt es sich dabei um Ansätze einer mystagogischen Pastoral, die „im Kontext
lebensgeschichtlicher Erfahrungen aufmerksam werden lässt auf die verborgene
Gegenwart des unbegreiflichen Gottes und das Wirken seines Geistes.“14 Wie dies in
der Praxis aussehen kann, soll an einigen Beispielen gezeigt werden.

Gerade mit Blick auf Jugendliche bzw. junge Erwachsene besitzt die Pop-Kultur eine
wesentliche Bedeutung für den gesamten Bereich der religiösen bzw. nichtreligiösen
Sozialisation. Aus diesem Grunde stellt es eine besondere Chance dar, in der Popmusik
auf Spurensuche zu gehen und dort religiöse Anknüpfungspunkte zu finden. Tatsächlich
zeigt sich, dass zahlreiche solcher Anknüpfungspunkte identifiziert werden können, da
die Popmusik durch und durch mit religiösen Fäden durchwebt ist. Beispielsweise
behandelt Robbie Williams in seinen Songs explizit religiöse Themen, wenn er sich
beispielsweise mit der Frage von Schuld auseinandersetzt und singt: „Sin, sin, sin, look
where we’ve been and where we are tonight. Hate the sin and not the sinner [...]“ und an
anderer Stelle des Liedes fährt Robbie Williams fort: “[…] just relax, it’s what Jesus
would do, we are made in this image baby, lets ride this thing through”. Natürlich sind
dies keine katechismustauglichen Sätze, die hier von einem weltweit bekannten Popstar
formuliert werden. Doch es sind Auseinandersetzungen mit religiösen Fragen bzw.
religiöse Anklänge, die junge Menschen beschäftigen und die zum Ausgangspunkt eines
dialogischen Prozesses gewählt werden können, in dem die Religiosität der vor allem
jungen Menschen mit der christlichen Botschaft in den Dialog tritt. Ein anderes Beispiel
für die Möglichkeit, von der Popmusik aus eine Brücke zum Gespräch über religiöse
Fragen zu schlagen, ist das Lied „Prayer of San Francis“ der kanadischen Popsängerin
Sarah McLaughlin. Sie vertonte das dem Heiligen Franziskus zugeschriebene Gebet
„Herr mach mich zum Werkzeug Deines Friedens“ und gelangte damit in die
Internationalen Charts. Hier ließen sich noch zahlreiche Anknüpfungspunkte in der
Popmusik finden, die eine Herausforderung an die Pastoral sind, junge Menschen in der
ihnen vertrauten religiösen Ausdrucksform anzusprechen und Glaubensverbindungen
herzustellen.

14
Simon, Werner, Stichwort „Mystagogik, in: LThK Bd. 7, Freiburg 1998, 571f.

21
Der bekannteste zeitgenössische deutsche Philosoph, Jürgen Habermas, der vor
wenigen Tagen seinen 80. Geburtstag feierte, hat darauf hingewiesen, dass die religiöse
Sprache zum Gemeingut der europäischen Gesellschaften gehört: „Die säkularisierte
Gesellschaft hat sich einen Sinn für die Artikulationskraft religiöser Sprache bewahrt.“15
Dies zeigt sich nicht zuletzt in der Bildsprache, in der heute kommuniziert wird.
Beispielsweise hat erst in der vergangen Woche nach dem Tod von Michael Jackson das
größte deutsche Nachrichtenmagazin, „Der Spiegel“, den verstorbenen Popstar in einer
für ihn typischen Pose auf dem Titelbild abgebildet, die Michael Jackson mit
ausgebreiteten Armen und erhobenen Kopf zeigt, die an der Kreuzigungsikonographie
anknüpft. Diese religiös durchtränkte Körpersprache wurde von Michael Jackson nicht
nur im Video zu seinem Song „Earth Song“ eingesetzt, sondern nun auch vom
Nachrichtenmagazin „Der Spiegel“ auf der Titelseite zitiert, da diese religiöse
Ikonographie und Sprache ihre eigene Sprachgewalt besitzt. Die religiöse Symbolik
gehört selbst in der sogenannten säkularisierten Gesellschaft zu einem gemeinsamen,
intuitiv erschließbaren Sprachfundus.

Ein anderer Anknüpfungspunkt sind Produkte, die von der Konsumgüterindustrie


entwickelt werden, die aber mit einem spirituellen Mehrwert versehen werden, um sie
aus der Masse qualitativ gleichwertiger Konkurrenzprodukte herauszuheben. Ein
Beispiel für solch eine „spirituelle Aufladung“ eines Konsumgutes stellt der Keksriegel
„Cielo“ (Himmel) dar. Dieser Keksriegel wurde mit einer himmlischen, spirituellen
Diktion bezeichnet, um ihn über rein geschmackliche Qualitäten hinaus mit einer
spirituellen Aura zu umgeben. „Die Werbung benutzt unablässig religiöse Zitate und
legiert im Rahmen des Kulturmarketing Produkte mit Lebensstil und Lebenssinn.“16

Anknüpfungspunkte bieten sich aber auch in der Literatur, die zahlreiche religiöse
Anknüpfungspunkte besitzt, darüber hinaus aber auch immer wieder explizit religiöse
Themen aufgreift: „In der postmodernen Vielfalt des heutigen Literaturbetriebs hat auch
das Thema Religion wieder seinen Platz.“17

All diese Beispiele zeigen, dass in der europäischen Kultur und im auf den ersten
Blick weithin so unchristlichen Alltag, der uns begegnet, überall Spuren der Religiosität
zu finden sind, die der Religionsmonitor von Bertelsmann in der europäischen
Gesellschaft gemessen hat. Die pastorale Herausforderung besteht nun darin, an dieser
Religiosität der Menschen, die sich oft gerade in der Banalität des Alltags zeigt,
anzuknüpfen, um von dort aus den Dialog mit der christlichen Botschaft zu initiieren:
„Es überzeugt eher, auf das geistliche Sehnen dieser Menschen zu setzen – ohne es
ihnen von außen aufzuoktruieren - , in welcher noch so rudimentären und latenten Form
es auch immer begegnen mag. Dieses geistliche Sehnen ist ins Gespräch zu bringen mit

15
Habermas, Jürgen, Glauben und Wissen. Friedenspreis des Deutschen Buchhandels 2001, Frankfurt
2001.
16
Höhn, Hans-Joachim, Postreligiös oder postsäkular? Wo heute religiöse Bedürfnisse aufleben, in:
HK spezial, November 2006, 2-6, 2.
17
Langenhorst, Georg, „Ich gönne mir das Wort Gottes“. Renaissance des Religiösen in der
Gegenwartsliteratur? Herder Korrespondenz spezial, November 2006, 55-59, 55.

22
der christlichen Botschaft des Geheimnisses der Menschen.“18 Letztlich basiert solch
ein pastoraler Ansatz auf dem Axiom, dass Gott sich in allen Gesellschaften und in allen
Kulturen inkarniert und dass der Glaube in diesen Gesellschaften und Kulturen
inkulturiert ist. Diese inkulturierten Glaubensspuren sind ein Weg, der vorgezeichnet
ist, um zu einem Gespräch mit den Menschen zu kommen, die sich selbst zwar als
religiös bezeichnen, zu denen die Kirche aber den Bezug längst verloren hat.

Karl Rahner hat dazu ermutigt, immer wieder an der alltäglichen Gotteserfahrung
anzuknüpfen und von dort aus den religiösen Dialog zu suchen. Er sagte: „Eine solche
Gotteserfahrung ist somit im Alltag schon immer gegeben, auch wenn der Mensch mit
allem, nur nicht mit Gott, beschäftigt ist.“19

Vor einer Woche endete offiziell das Paulusjahr, das Papst Benedikt VXI. ausgerufen
hatte. Ein solcher pastoraler Ansatz, der hier skizziert wurde und der auf die
Gottessehnsucht der Menschen, ihre Religiosität und die Erfahrung Gottes im Alltag
setzt, kann letztlich als ein paulinischer Ansatz betrachtet werden. Denn schon in Athen
wies der Völkerapostel auf die Gottesnähe aller Menschen hin: „Sie sollen Gott suchen,
ob sie in ertasten und finden können; denn keinem von uns ist er fern. Denn in ihm
leben wir, bewegen wir uns und sind wir, wie auch einige von Euren Dichtern gesagt
haben. Wir sind von seiner Art.“ (Apg 17,27f)

Die pastorale Herausforderung besteht nun darin, in die mitunter fremden Kulturen
einzutauchen und dort Ansatzpunkte einer mystagogischen Pastoral zu identifizieren.
Mancher wird dabei verwundert sein, wie religiös es an scheinbar unreligiösen Orten
zugeht: „Die unterschiedlichen Räume, in denen Menschen leben, sind voller Spuren,
die auf Gott hinweisen. Sie zu entdecken und mit der Botschaft des Evangeliums zu
verbinden, ist Aufgabe einer zeitgemäßen christlichen Verkündigung.“20

Fazit
Die Analyse des Bertelsmann Religionsmonitors 2008 zeigt, dass entgegen einem
weitverbreiteten Empfinden das Leben der Menschen in Europa zu Beginn des dritten
Jahrtausends von einer starken Religiosität geprägt ist. Diese Religiosität ist jedoch
äußerst heterogen, und auch wenn die Menschen in Europa überwiegend religiös bzw.
hochreligiös sind, ist ihre Religiosität immer weniger kirchlich beheimatet. Daraus
ergibt sich eine pastorale Herausforderung. Die Kirche ist heraus-gefordert, die
Religiosität der Menschen und auch den Glauben abseits der Kirche aufzuspüren und
mit dem Glauben der Kirche in einen lebendigen Dialog zu bringen.

18
Knobloch, Stefan, Mehr Religion als gedacht! Wie die Rede von der Säkularisierung in die Irre
führt, Freiburg 2006, 145.
19
Rahner, Karl, Selbsterfahrung und Gotteserfahrung, in: Schriften zur Theologie, Bd. 10. Zürich –
Einsiedeln – Köln 1972, 134.
20
Die Deutschen Bischöfe, Zeit zur Aussaat. Missionarisch Kirche sein. Hg. Vom Sekretariat der
Deutschen Bischofskonferenz. Bonn 2000.

23
Pourquoi proposer la foi ?
21
«Pour que notre (votre) joie soit complétée » (1Jn, 4)

André Fossion22

Pourquoi proposer la foi?


Telle est la question23 que je voudrais rencontrer dans cet exposé. Pour entamer la
réflexion, arrêtons-nous brièvement à la première épître de Paul aux Corinthiens

Une interrogation à l’exemple de Paul


Au chapitre 9 de l’épître aux Corinthiens, Paul s’interroge sur son action
d’évangélisation. Pourquoi évangélise-t-il ? Paul énonce les motivations qui sont les
siennes mais aussi celles qu’on pourrait lui prêter. Il pourrait être soupçonné, dit-il, de
vouloir tirer des avantages matériels des communautés où il passe ? Pour écarter ce
soupçon, Paul souligne d’emblée qu’il ne veut être à charge de personne. Il ne cherche
pas de salaire auquel pourtant il aurait droit comme ouvrier de l’Evangile, de la même
manière qu’un soldat gagne sa solde. «Nous n’avons pas usé de ce droit, écrit-il. Nous
supportons tout au contraire, pour ne créer aucun obstacle à l’Evangile du Christ » (1
Co 9,12). Mais alors s’il ne cherche pas d’avantages matériels, quelles sont ces
véritables motivations ? Ne serait-ce pas l’orgueil, la volonté de pouvoir, le besoin
d’être reconnu comme le meilleur apôtre ? Paul envisage franchement cette hypothèse.
Annoncer l’Evangile d’une manière aussi désintéressée sans requérir aucun salaire
pourrait être, en effet, un motif secret d’orgueil, une façon de se faire prévaloir. Mais
Paul se reprend aussitôt en disant : « L’évangile n’est pas un motif d’orgueil pour moi,
mais une nécessité qui s’impose à moi : malheur à moi si je n’annonce pas l’Evangile (1
Co 9,16). Ainsi donc, la motivation profonde de Paul, selon ses déclarations, serait non
point l’orgueil mais la nécessité qui s’impose à lui d’échapper au malheur. En d’autres
termes, pour lui, l’annonce de l’Evangile a partie liée à son propre bonheur. Paul le
déclare avec force : il éprouve du contentement et de la joie à offrir l’Evangile
gratuitement sans user des droits que son travail d’évangélisation pourrait cependant lui
conférer. C’est donc pour son propre bonheur comme pour celui des autres que Paul se
dépense sans compter à annoncer l’Evangile tant aux juifs qu’aux païens. Son

21
En grec, « ρερληρωμένη » participe passé passif du verbe « ρληρόω »
22
Professeur à l’Institut Lumen Vitae (Belgique).
23
L’expression « Proposer la foi » a été popularisée par la publication de la Lettre aux catholiques de
France « Proposer la foi dans la société actuelle », rapport de Mgr, Dagens, préface par Mgr.Louis-Marie
Billé, Editions du Cerf, Paris, 1996, 129p.

24
espérance, ajoute-t-il, est d’en gagner quelques uns à l’Evangile, d’éprouver lui-même
le salut et d’avoir part ainsi à l’Evangile.

Ce bref commentaire du chapitre 9 de la première épître de Paul aux Corinthiens


n’avait pas pour but de trouver une réponse à la question « Pourquoi proposer la foi ? ».
Mon intention ici était simplement de mettre en exemple Paul qui s’interroge, de
manière critique, sur ses propres motivations lorsqu’il annonce l’Evangile. La question
est pour lui non pas seulement un objet de réflexion, mais un objet de débat en lui-
même et avec les autres. Paul s’interroge sur les ressorts éventuellement cachés qui
l’animent, sur les soupçons qu’il pourrait lever, sur les obstacles qu’il pourrait dresser.
A l’exemple de Paul, n’avons-nous pas, nous aussi, comme témoins de l’Evangile, à
faire la lumière, de manière réflexive et critique, sur nos propres motivations et à les
ajuster, autant que possible, au message de l’Evangile lui-même ?

Des motivations plurielles, complexes, ambiguës voire perverses


Pourquoi évangélisons-nous ? Qu’est-ce donc qui nous pousse à annoncer
l’Evangile, à le propager, à le transmettre de génération en génération ? Comme toute
action humaine la proposition de la foi peut receler des motivations diverses, multiples,
plus ou moins conscientes. Les sciences de l’homme ont bien montré que l’être humain
n’est jamais complètement maître chez lui, qu’il n’est jamais en parfaite transparence
par rapport aux désirs multiples, divers ou même contradictoires qui le traversent et le
meuvent. Un désir peut toujours en cacher un autre. Ainsi, en est-il de l’annonce
évangélique. Parce qu’elle est humaine, elle n’échappe pas à la pluralité des
motivations, aux ambiguïtés ou même aux perversions qui subrepticement peuvent la
dénaturer.

L’histoire, en effet, montre que l’annonce évangélique a été mêlée à des motivations
complexes, obscures, pas toujours honorables, loin s’en faut. La propagation de
l’évangile, l’enseignement de la foi ont été liés, de fait, au jeu des puissances. Les
empires – comme ceux de Constantin ou de Napoléon - s’en sont servis pour asseoir
leur unité et leur stabilité politiques. Le mouvement des croisades, manifestement,
n’était pas de pure évangélisation ; il charriait avec lui, sans doute même
prioritairement, des intérêts commerciaux et des ambitions politiques. L’élan
missionnaire ne s’est pas effectué non plus sans lien étroit avec la volonté de
domination et de domestication du Nouveau Monde par l’Occident chrétien. Le
marxisme a dénoncé la propagation de la foi chrétienne comme un instrument de la
bourgeoisie pour maintenir les populations opprimées sous sa dépendance et perpétuer
ainsi un ordre social injuste. Des mouvements de droite, aujourd’hui encore,
considèrent avant tout la foi chrétienne comme un rempart contre ce qui, à leur yeux,
apparaît comme une décadence morale ou contre la montée de l’Islam. L’expansion des
religions paraît bien, en effet, inséparable des enjeux géopolitiques et de la répartition
des aires d’influence entre les puissances.

Sur le plan psychologique et interpersonnel, les motivations à proposer la foi et à


l’animer ne sont pas plus transparentes. Là encore notre modernité n’a pas manqué de
souligner les ambiguïtés, les faux–fuyants, les illusions, les volontés de puissance qui
peuvent se lier à l’entreprise de propagation de la foi. N’est-ce pas, par exemple, comme
le dit Comte-Sponville, une manière imaginaire d’exorciser la peur de la mort – la

25
sienne comme celle des autres – et de se consoler à bon compte au lieu d’affronter
lucidement et en vérité la finitude. « Que nous dit la religion, écrit-il, spécialement
chrétienne ? Que nous ne mourons pas, ou pas vraiment, ou que nous allons ressusciter
(…) Que nous sommes d’ores et déjà aimés d’un amour infini… Que demander de
plus ? Rien, bien sûr. C’est justement ce qui rend la religion suspecte : c’est trop beau,
comme on dit, pour être vrai ! (…) une croyance qui correspond à ce point à nos désirs ;
il y a lieu de craindre qu’elle n’ait été inventée pour les satisfaire (au moins
fantasmatiquement)24 ». Ainsi donc, si on suit Comte-Sponville, annoncer la foi serait
une manière d’exorciser nos peurs et de vivre dans un imaginaire consolateur. Mais, ce
pourrait être aussi la volonté de puissance, la volonté de pouvoir sur l’autre, la volonté
de le conformer à ce que l’on est soi-même. Rappelons-nous les temps de la première
église : les juifs convertis au christianisme voulaient que les païens convertis au
christianisme adoptent leurs propres coutumes juives et deviennent en quelque sorte
comme eux. Il y a donc dans la proposition de la foi une sorte de rapport possible à la
vérité qui est de possession, qui cherche à l’imposer à l’autre pour qu’il s’y plie. Nous le
savons aussi, il y a des formes de pastorales qui respirent l’inquiétude, la nostalgie, la
moralisation, la fixation névrosée sur des interdits, sur des coutumes, voire sur des
rubriques. Il y a des zèles religieux désordonnés, des prosélytismes tapageurs, qui
s’apparentent au harcèlement et qui font fuir. « Le salut en Jésus-Christ ? Ah non,
merci, salut, je me sauve ! » répondait quelqu’un, non sans humour, à un missionnaire
de la foi un peu trop pressant. Et puis, il y a encore la routine. On annonce la foi par
habitude, pour faire marcher le système, parce que c’est un métier dont on s’acquitte,
que l’on exerce, pour lequel on est socialement reconnu et éventuellement rémunéré.

Un double espace de travail : théologique et spirituel


Ainsi donc, c’est ce que j’ai voulu souligner ici, les motivations qui nous poussent à
annoncer l’Evangile peuvent être multiples, complexes, obscures, plus ou moins
conscientes tant sur le plan psychologique que sur le plan social. Ne nous leurrons pas ;
nos motivations ne seront jamais parfaitement pures et transparentes. Mais, au moins,
comme pasteurs, par souci d’authenticité dans notre mission d’évangélisation, avons-
nous à nous atteler à un double travail : tout d’abord, un travail d’intelligence
théologique de l’annonce de la foi au sein de l’économie du salut et, ensuite, un travail
d’ajustement spirituel de nos pratiques pastorales à l’annonce évangélique elle-même, à
la grâce dont elle témoigne. D’où, les deux points de la suite de mon exposé. Quelle
intelligence théologique pouvons-nous avoir de la proposition de la foi ? A quelle
conversion, à quel ajustement spirituel, cette intelligence de la proposition de la foi nous
convie-t-elle ?

Pour une intelligence théologique de la proposition de la foi


La perspective que je voudrais développer consiste à souligner que la foi chrétienne -
et par conséquent son annonce – se tient dans un paradoxe : elle est radicalement non
nécessaire pour le salut, et pourtant radicalement précieuse pour la vie, pour la
transfiguration qu’elle permet de vivre. Radicalement non nécessaire, radicalement

24
André COMTE-SPONVILLE, L’esprit de l’athéisme. Introduction à une spiritualité sans Dieu, Albin
Michel, Paris, 2009, pp.135-136.

26
précieuse, tel est, me semble-t-il, le statut de la foi chrétienne comme de son annonce.
C’est ce paradoxe que je voudrais exposer ici. Comprendre ce paradoxe et s’y tenir me
semblent particulièrement salutaires pour l’annonce de la foi aujourd’hui dans le monde
sécularisé qui est le nôtre.

La grâce de Dieu est débordante, excessive, sans mesure.

Pour entrer dans la réflexion et éclairer le paradoxe que je viens d’énoncer, je


commencerai par mettre en relief l’affirmation fondamentale du christianisme sans
laquelle il s’effondre : que nous le voulions ou non, que nous le sachions ou non, que
nous le proclamions ou non, la grâce de Dieu est à l’œuvre dans le monde d’une
manière qui nous déborde et que nous ne pouvons mesurer. Le christianisme, en effet,
tient tout entier dans l’affirmation que Dieu est amour excessif. « L’amour, dit Saint
Paul, prend patience, il rend service, il excuse tout, il croit tout, il espère tout, il endure
tout. L’amour ne passera jamais » (1 Co 13,4-7). Cet hymne à la charité de Paul ne
prononce pas le nom de Dieu, mais il le désigne dans son être même.

Comment pouvons-nous dire, comme chrétiens, que Dieu aime de cette manière,
sans condition ni mesure ? C’est en contemplant le visage du Christ qui, au milieu de
nous, a aimé jusqu’à l’extrême (Jn 13,1), en figurant ainsi l’amour du Père. Sa vie, Jésus
l’a passé à faire le bien (Ac 10,38 ). Il a vécu dans un esprit de service. Il a appelé les
êtres humains à plus d’humanité, à sortir de la violence, à se reconnaître frères et sœurs,
fils et filles d’un Dieu que l’on peut appeler « Notre Père ». Il a appelé tous ceux et
celles qu’il rencontrait à avoir foi en la vie, en soi et en l’autre, et, dans cette foi, à tracer
leur propre chemin d’existence : « Va, ta foi t’a sauvée » (Mc 10,52), dit Jésus à
Bartimée. Comme le souligne Christophe Théobald dans son ouvrage « Le
christianisme comme style 25», l’hospitalité de Jésus était telle que chacune de ses
rencontres avec un autre était comme un « événement », un avènement de vie pour
l’autre mais aussi pour lui. Mais ce Jésus a été rejeté et tué par les autorités religieuses
de son temps. Ceux-ci l’ont accusé de mal parler de Dieu, d’être du côté de Satan. Sur la
croix, alors que la violence se déchaîne sur lui, Jésus ne cède pas à la violence et, en ce
sens, il la vainc. Il ne répond par la violence mais par une parole de pardon. Saint Paul
exprime ce drame de la croix de manière admirable « Là où le péché a abondé, la grâce
a surabondé (Rm 8,20). Tel est le mystère de la croix : excès de mal et excès d’amour
plus grand encore. Quant à la résurrection, elle est l’œuvre de Dieu qui se révèle dans ce
drame. Par la résurrection, en effet, Dieu rend justice et témoignage à Jésus. Il
authentifie ainsi la manière d’être de Jésus, en disant en quelque sorte : « J’étais à côté
de cet homme. Si vous voulez savoir qui je suis, écoutez-le. Si vous voulez savoir
comment j’aime, regardez-le ». Ainsi, comme chrétiens, c’est en reconnaissant en Jésus
le visage du Père, le Fils unique, mort et ressuscité, que nous pouvons dire que Dieu
aime, sauve, communique la vie en abondance, de manière inconditionnelle, sans
limite, infiniment, démesurément.

25
Chritoph THEOBALD, Le christianisme comme style. Une manière de faire la théologie en
postmodernité, Collection « Cogitatio fidei », 2 volumes, 260-261, Le Cerf, Paris, 2007.

27
Les Ecritures témoignent de multiples façons de l’infini de la grâce de Dieu. Voici
quelques citations, à cet égard, bien connues mais que nous pouvons écouter de
manière neuve en y repérant l’insistance sur l’excès de la grâce de Dieu.

* « Frères, Dieu est riche en miséricorde; à cause du grand amour dont il nous a
aimés, nous qui étions des morts par suite de nos fautes, il nous a fait revivre avec le
Christ : c'est bien par grâce que vous êtes sauvés. Avec lui, il nous a ressuscités ; avec
lui, il nous a fait régner aux cieux, dans le Christ Jésus. Par sa bonté pour nous dans le
Christ Jésus, il voulait montrer, au long des âges futurs, la richesse infinie de sa
grâce. C'est bien par la grâce que vous êtes sauvés, à cause de votre foi. Cela ne vient
pas de vous, (vous n’y êtes pour rien) c'est le don de Dieu (Eph 2, 4-8)

* « Lui qui n’a pas épargné son propre Fils, mais l’a livré pour nous tous, comment
avec son Fils, ne nous donnerait-il pas tout » (Rm 8,32)

* « Mais en ceci Dieu prouve son amour envers nous : Christ est mort pour nous
alors que nous étions encore pécheurs » (Rm 5,8).

* « Oui j’en ai l’assurance, ni la mort, ni la vie, ni les anges, ni les dominations, ni le


présent ni l’avenir, ni les puissances, ni les forces des hauteurs ni celles de profondeurs,
ni aucune créature, rien ne pourra sous séparer de l’amour de Dieu manifesté en Jésus-
Christ notre Seigneur »( Rm 8,38-39).

Comme le souligne encore Luc, « Dieu est bon pour les ingrats et pour les
méchants » (Luc 6,35). Il invite largement « les bons comme les mauvais » (Mt 22,10)
à entrer dans la salle des noces. Il abandonne tout pour se mettre en quête de la brebis
perdue. Ainsi donc, la grandeur de l’amour divin manifesté en Jésus-Christ, - sa largeur,
sa longueur, sa hauteur, sa profondeur, pour reprendre les termes de Paul - surpasse
toute connaissance (Ep 4,129). Rien ne peut éteindre l’amour de Dieu pour nous, pas
même notre péché. Le don de Dieu est sans mesure et inconditionnel. La seule
condition qui nous est demandée, car Dieu, dans sa bonté, ne pourrait nous donner la vie
contre notre gré, c’est d’y consentir, de nous laisser aimer de cet amour fou.

Si la grâce de Dieu est excessive à ce point, la foi chrétienne devient elle-même


radicalement non nécessaire pour être engendré à la vie de Dieu.
Si tel est l’amour de Dieu et la communication de sa vie – sans mesure, sans
condition – alors nous pouvons tenir une deuxième affirmation : la foi chrétienne (et par
conséquent son annonce) est radicalement non nécessaire pour que l’œuvre de Dieu
s’accomplisse. Cette affirmation peut paraître abrupte, éventuellement choquante 26. Elle

26
Cette affirmation peut être ressentie comme choquante dans des contextes culturels où la foi en Dieu
fait partie des évidences culturelles. Elle peut aussi apparaître en contradiction avec des affirmations
répétées du Nouveau Testament qui lient le salut à la foi, comme par exemple : «Celui qui croit le Fils a
la vie éternelle ; celui qui refuse de croire au Fils ne verra pas la vie» (Jn 3,39). S’agissant du lien entre le
salut et la foi, on peut faire les remarques suivantes :
- Il est vrai qu’il n’y a pas de salut sans la foi au sens premier de « confiance » en la vie, en soi , en
l’autre. Cette foi est nécessaire à la vie, mais elle ne désigne pas spécifiquement la confession de foi
chrétienne.

28
est pourtant authentiquement traditionnelle et profondément salutaire. Bien sûr, il n’y a
pas de vie sans « foi », c’est-à-dire sans confiance en soi, en l’autre, en la vie. Mais le
mot « foi » ne désigne pas ici spécifiquement la confession de foi chrétienne. Bien sûr,
il n’y pas de salut sans foi au sens eschatologique du terme, c’est-à-dire sans le
consentement final de chacun et de chacune à l’amour de Dieu manifesté à la fin des
temps. Mais, durant le temps de notre vie, si la foi chrétienne permet d’éprouver le
salut, cela ne veut pas dire, pour autant, que les non chrétiens se trouvent exclus de la
dynamique du salut. C’est en ce sens que je dis ici que la foi chrétienne, dans
l’aujourd’hui de l’histoire, n’est pas nécessaire pour le salut. Dieu, en effet, aujourd’hui
comme hier, ne cesse d’engendrer à sa vie et de conduire à son Royaume des hommes et
des femmes qui ne le connaissent pas, qui ne croient pas en lui ou ont d’autres
croyances. Par rapport à la communication de la vie offerte gracieusement à tous, nous
sommes, à cet égard, des serviteurs inutiles. Nous n’y sommes pour rien et la grâce de
Dieu suffit.

Ainsi donc, au regard de l’amour débordant de Dieu, la reconnaissance explicite du


Dieu de Jésus-Christ durant cette vie n’est en rien une condition obligée pour être
conduit à la vie en abondance. Dieu crée et recrée, engendre à sa vie et sauve d’une
manière que nous ne pouvons mesurer, indépendamment de l’Eglise, de son témoignage
et de ses sacrements. Bien sûr, comme chrétiens, nous pouvons dire que la grâce de
Dieu pour le monde se manifeste et est agissante dans l’Eglise et par ses sacrements,
mais il nous faut aussi tenir cette autre affirmation de Gaudium et Spes, reprise dans le
Catéchisme de l’Eglise Catholique27 qui dit ceci : « Puisque le Christ est mort pour
tous, et que la vocation dernière de l’homme est réellement unique, à savoir divine, nous
devons tenir que l’Esprit Saint offre à tous, d’une façon que Dieu connaît, la possibilité
d’être associé(s) au mystère pascal »28. Il y a là l’affirmation de la puissance créatrice et
salvifique de Dieu qui anime tout homme, qui prend tout l’univers, d’une manière qui
déborde les réalités ecclésiales. Celles-ci témoigne de la grâce de Dieu, mais sans
pouvoir la limiter. Comme Pierre à l’assemblée de Jérusalem, concernant le salut offert
aux païens, nous pourrions dire : « Qui sommes-nous pour pouvoir empêcher Dieu
d’agir » (Ac 11,17). La grâce de Dieu est signifiée et passe par les sacrements, mais
cette grâce opérante de Dieu n’est pas liée aux sacrements29. Elle les déborde. En ce
sens, dans l’hypothèse même où la foi chrétienne viendrait à disparaître de la terre, Dieu

- Qu’il n’y ait pas de salut sans la foi , peut être entendu aussi au sens eschatologique. L’affirmation
concerne alors l’attitude de confiance en l’amour de Dieu que tout être humain sera invité à adopter à la
fin des temps. Dieu ne veut, en effet, engendrer à sa vie sans notre consentement ; c’est ce consentement
à l’amour de Dieu à la fin des temps qui est désigné alors par le mot « foi ». Cela ne veut donc pas dire
que ceux et celles qui ne professent pas la foi chrétienne durant le temps de la vie ici-bas sont exclus du
salut.
- Que le salut soit lié à la foi peut encore être entendu d’une troisième manière au sens où la foi permet
effectivement d’éprouver dès maintenant d’éprouver le salut. Mais cette affirmation que l’on peut
effectivement tenir ne signifie pas pour autant que ceux et celles qui ne professent pas la foi sont écartés
de la dynamique du salut. La reconnaissance explicite du salut n’est pas une condition pour sa mise en
œuvre. C’est en ce sens qui nous disons ici que la foi n’est pas nécessaire au salut.
27
Catéchisme de l’Eglise Catholique, 1992, §1260.
28
GS 22 ; voir aussi LG 16 ; AG 7
29
« Dieu a lié le salut au sacrement du Baptême, mais il n’est pas lui-même lié à ses sacrements » in
Catéchisme de l’Eglise Catholique, §1257.

29
n’en continuerait pas moins, par la grâce du Christ, de garder à l’égard du monde sa
sollicitude créatrice et recréatrice.

Si la grâce de Dieu est excessive et si la foi chrétienne est radicalement non


nécessaire pour être engendré à la vie de Dieu, la foi chrétienne est néanmoins
radicalement précieuse pour la vie. Elle la transfigure et permet de vivre de manière
radicalement neuve.
Si la foi chrétienne n’est pas nécessaire pour mener une vie sensée, joyeuse et
généreuse, si elle n’est pas la condition obligée pour être aimé de Dieu et être engendré
à sa vie, il est cependant radicalement précieux de connaître et de reconnaître, avec une
joie redoublée, la grâce de Dieu qui est donnée, l’espérance qu’elle autorise au-delà de
ce que nous pouvions imaginer. Cette reconnaissance, vécue fraternellement en Eglise,
célébrée dans les sacrements, non seulement éclaire la vie d’un jour nouveau, mais la
reconfigure et la transfigure radicalement. Prenons deux comparaisons pédagogiques
pour faire comprendre ce paradoxe de la non nécessité de la foi et de son caractère
radicalement précieux. Imaginons deux personnes qui s’aiment mais sans se l’avouer,
sans le savoir. Elles peuvent vivre ainsi, mais la déclaration d’amour, bien qu’elle ne
crée pas l’amour puisqu’il est déjà là, change tout. Elle transfigure la vie et l’amour lui-
même dès lors que celui-ci est déclaré, reconnu et éprouvé. Autre comparaison : on peut
vivre, de manière sensée, joyeuse, généreuse sous les nuages sans se rendre compte
qu’il y a un soleil derrière qui donne de sa lumière. Mais, si à un moment donné, les
nuages se déchirent et que les rayons du soleil inondent la terre, alors celle-ci s’en
trouve toute transformée. Elle apparaît sous une lumière nouvelle qui transfigure et
embellit toute chose. Ainsi en va-t-il de la foi ; non nécessaire pour bénéficier de la
grâce de Dieu, elle transfigure néanmoins toute chose. Elle est comme la perle rare de
l’Evangile. On peut vivre sans elle, mais, une fois trouvée, elle devient le bien le plus
précieux30, « plus précieux que l’or périssable »(1P 1,7)

Telle est donc notre condition humaine. Dieu nous a faits tels que la vie, sans la foi
chrétienne ni l’Eglise, peut être conduite à son accomplissement. Point n’est besoin de
foi chrétienne pour vivre une vie joyeuse, sensée, généreuse, engagée, pleine de
valeurs. Point n’est besoin de foi chrétienne ni d’Eglise pour vivre une vie selon l’Esprit
de Dieu et être associé au mystère pascal. Point n’est besoin de foi chrétienne pour
qu’une vie menée en vérité puisse être reconnue comme œuvre de Dieu. Dès lors, en
effet, que l’amour est présent, que l’hospitalité est vécue entre les humains, qu’ils se
détournent de la violence, l’Esprit de Dieu lui-même est présent, donne à chacun de
naître à lui-même et d’écrire sa propre histoire. « Tout homme qui marche dans la vérité
vient à la lumière de telle sorte que ses œuvres soient reconnues comme des œuvres de

30
Mais ceci n’empêche pas que d’autres puissent éprouver que leur manière de penser et de vivre soit
plus précieuse pour eux que ce que la foi chrétienne invite à vivre. Ainsi, aujourd’hui, pour nombre de
nos contemporains, vivre sans Dieu peut apparaître comme une conquête humaine extrêmement
précieuse. On est ici dans l’ordre des convictions au sein d’un dialogue entre personnes raisonnables qui
se respectent et s’écoutent pour marcher en vérité.

30
Dieu » (Jn 3,21). « Tout homme est un histoire sacrée31; l’homme est à l’image de
Dieu », dit un chant liturgique bien connu.

Par rapport à cette grâce de Dieu déjà à l’œuvre dans la genèse du monde, la foi
chrétienne n’ajoute rien sinon précisément la reconnaissance explicite de cette grâce. Et
cette reconnaissance, avec tout ce qu’elle permet de vivre en Eglise, en renouvelant le
regard sur toutes choses, apporte des motifs supplémentaires de joie, de sens, de
gratitude, d’engagement qui viennent s’ajouter, par grâce, à la grâce de l’existence. La
foi, de ce point de vue, est de l’ordre du « combien plus », du « à plus forte raison », de
l’ « a fortiori ». S’il y a du sens et de la joie dans le monde, s’il y a des motifs de lutter
pour un monde meilleur, « combien plus », « à plus forte raison », « a fortiori » si on
est chrétien, si l’on sait que nous sommes des fils et des filles de Dieu, des frères et des
sœurs promis à une vie qui ne finira pas. Quant aux tâches communes d’humanisation
qui mobilisent les hommes, la foi chrétienne, comme le dit Gaudium et Spes (§43),
nous en fait « un devoir plus pressant ». Si c’est un devoir, en effet, pour les êtres
humains d’être solidaires entre eux, « à bien plus forte raison » si nous nous
reconnaissons fils et filles de Dieu, frères et sœurs en Jésus-Christ, appelés à la vie
éternelle.

La foi de ce point de vue apparaît comme un redoublement de sens, de joie et de


communion qui vient non point seulement se greffer sur la vie, mais, bien davantage, la
reconfigurer, la transfigurer à la racine comme dans une nouvelle création, pour une
nouvelle naissance. « En Christ, vous êtes une créature nouvelle» (2Co 5,17), dit Saint
Paul. C’est la vie toute entière qui se trouve ainsi reconfigurée, transformée. Cela ne
veut pas dire, bien entendu, que les chrétiens aient des motifs de se faire prévaloir par
rapport aux autres. Il ne s’agit pas, en effet, d’être ou de se prétendre meilleur; il s’agit
bien plutôt de s’ajuster à la révélation d’une grâce qui est offerte à tous, qui transforme
la vie et que l’on s’empresse de vouloir mettre en partage.

Avant de passer à la troisième partie de mon exposé, je résume le propos. En vertu de


la nature excessive de la grâce de Dieu, la foi chrétienne est radicalement non nécessaire
pour être engendré à la vie de Dieu, mais elle est radicalement précieuse pour la
transfiguration de la vie qu’elle opère. Elle s’offre comme une grâce supplémentaire qui
vient s’ajouter à la grâce de l’existence

Pour un ajustement spirituel de la proposition de la foi: annoncer


l’évangile de manière évangélique.
Dans ce troisième point, plus pratique, plus pastoral, je voudrais poser la question de
l’ajustement spirituel de l’annonce de la foi aux perspectives théologiques que je viens
de développer. Cet ajustement spirituel consiste à se tenir dans le paradoxe que j’ai
évoqué d’une foi radicalement non nécessaire et pourtant radicalement précieuse.
L’enjeu de cet ajustement est de nous laisser engendrer à une annonce de l’Evangile qui

31
« Tout homme est une histoire sacrée. » est une phrase de Patrice de La Tour du Pin en tête de La
Vie recluse en poésie (1938). Elle a été intégrée par Didier Rimaud dans la messe « Que tes oeuvres sont
belles », composée avec Jacques Berthier pour les Scouts de France en 1983

31
soit elle-même évangélique. Ma réflexion se développera en six points figurant la
genèse en nous de l’acte de proposition de la foi à quiconque.

L’immersion dans l’amour démesuré de Dieu


La première attitude juste du témoin de l’Evangile est de se laisser affecté par le
message de l’amour excessif de Dieu. Il s’agit pour le témoin de tenir devant Dieu en se
laissant imprégner par la richesse infinie de sa grâce. Il s’agit pour lui, en d’autres
termes, de se replonger dans la grâce de son baptême, dans la grâce d’un Dieu qui donne
vie, appelle chacun par son nom, le revêt de dignité, le sauve, le recrée en le destinant à
une vie qui ne finira pas. L’enjeu est que la proposition de la foi trouve effectivement
ses racines dans cette expérience d’immersion dans l’amour de Dieu. L’enjeu, c’est que
la proposition de la foi soit fondée sur l’expérience de la grâce de Dieu et en soit
l’expression gracieuse, j’y reviendrai.

La charité d’abord : la priorité de la posture diaconale


La deuxième attitude consiste, pour le témoin, dans la disposition à aimer de la
même manière qu’il est aimé, c’est-à-dire gratuitement, sans calcul, indépendamment
des mérites. Cette disposition fondamentale à aimer conduit à adopter un principe de
bienveillance envers quiconque. Etre bienveillant envers quiconque, c’est, en toutes
circonstances, lui vouloir du bien et veiller à son bien. On pourrait parler ici de posture
« diaconale » : une attitude de « service » à l’égard de tous et particulièrement des
pauvres et de ceux qui souffrent32. La diaconie ne désigne pas ici tel ou tel engagement
particulier et spécifique comme la visite des malades par exemple, mais, plus
fondamentalement, en amont, une manière d’être, une manière aimante d’habiter le
monde au nom de la grâce de Dieu manifestée en Jésus-Christ : « La diaconie est une
manière de se relier ou d’être envoyé vers d’autres, qui porte en elle le don de Dieu tel
qu’il s’est exprimé pleinement dans le Fils »33. La diaconie désigne, en ce sens, une
proximité bienveillante aux uns aux autres, fruit de la Pâques du Christ. Elle est ce à
quoi l’Eglise toute entière et ses divers ministères sont ordonnés. Tout prêtre commence
par être diacre sans cesser de l’être. Ainsi en va-t-il de l’Eglise toute entière : la
dimension diaconale est au fondement de sa mission C’est d’ailleurs ce que proclamait
solennellement Paul VI à l’issue du Concile Vatican II : « L’idée de service a occupé
une place centrale dans le Concile (…) l’Eglise s’est pour ainsi dire proclamée la
servante de l’humanité (…) ; toute sa richesse doctrinale ne vise qu’une chose : servir
l’homme34»

Voir Dieu en toutes choses


Mais il ne suffit pas au témoin d’adopter une posture diaconale, encore faut-il qu’il
éduque son regard pour « voir Dieu en toutes choses » selon la formule ignatienne.
« Voir Dieu en toutes choses », c’est, pour le témoin, reconnaître l’amour de Dieu à
l’œuvre dans le monde comme il l’est en lui-même. C’est reconnaître, dans le concret

32
Cf Gaudium et Spes, §1.
33
Etienne GRIEU, Un lien si fort. Quand l’amour de Dieu se fait diaconie, Collection « Théologies
pratiques », Novalis, Lumen Vitae, l’Atelier, Paris, 2009, p.16.
34
Paul VI, Discours de clôture du concile Vatican II (le 7 décembre 1965).

32
de l’existence, Dieu « en qui nous avons, le mouvement, la vie et l’être » (Ac 17,28),
qui engendre à sa vie, aime, relève, sauve, invite tout à chacun à devenir lui-même.

Aujourd’hui, à cet égard, dans le monde sécularisé qui est le nôtre, n’aurions-nous
pas à aiguiser notre regard pour y voir l’Esprit de Dieu « qui pénètre toute chose 35»?
Dans la culture d’aujourd’hui, Dieu n’est ni évident pour l’intelligence ni nécessaire
pour vivre une vie joyeuse, sensée, généreuse. Le monde aujourd’hui, en tout cas dans
le contexte culturel européen façonné par des siècles de christianisme, en est arrivé à
pouvoir se passer de Dieu. Le problème pour le témoin de l’Evangile n’est pas dénoncer
ce monde, de le pourfendre ou de vouloir le redresser parce qu’il ne croit pas en Dieu,
mais bien plutôt de « voir Dieu » qui engendre ce monde et de l’aimer. En d’autres
termes, la pastorale aujourd’hui ne consiste pas à faire la leçon au monde parce qu’il ne
croit pas en Dieu, mais à voir Dieu dans ce monde-là en discernant dans la non évidence
de Dieu, dans sa non nécessité la trace même d’un Dieu qui donne la vie gratuitement
en s’effaçant. D’une certaine façon, comme croyants, nous avons sans doute à nous
réconcilier théologiquement avec le monde agnostique et athée qui est le nôtre, en y
voyant l’œuvre de Dieu lui-même qui donne aux hommes de vivre et de s’épanouir sans
se rendre nécessaire ni évident. Il s’agirait, en d’autres termes, de reconnaître la richesse
infinie de l’amour de Dieu qui donne la vie en s’effaçant, en se faisant oublier, en se
retirant dans la discrétion. Ainsi peut-on reconnaître l’œuvre de Dieu dans le monde de
l’incroyance d’aujourd’hui dans la mesure où il naît d’un dialogue vrai et d’une
interrogation authentique. Ce monde dit quelque chose de la grâce de Dieu qui donne,
engendre et sauve tout en s’effaçant. L’incroyance n’est pas de soi le fruit d’un péché
qui obscurcit la conscience. La non évidence de la foi ainsi que la possibilité de vivre
sans elle laissent voir quelque chose de l’infini de l’amour de Dieu qui donne sans
compter, sans retour obligé.

La proposition de la foi dans le déploiement de la diaconie


Pour le témoin de l’évangile, se maintenir à travers tout dans la posture diaconale et
« voir Dieu est toute choses », c’est être conduit, dans le concret de l’existence, au fil
des événements, à vivre ans l’esprit des béatitudes, à être hospitalier envers quiconque,
avec un a priori favorable, de telle sorte que toute rencontre soit, pour l’un et l’autre, un
moment de vérité au service du passage de la vie. Vivre cette hospitalité (r)éveille
l’humain en soi et en l’autre sans le retenir. Pour le témoin de l’Evangile, c’est déjà, une
fin en soi puisque, par cette hospitalité, la vie passe. Rappelons-nous, la diaconie est la
forme première et fondamentale du ministère de l’Eglise : contribuer à faire advenir
l’humain, c’est prendre part à l’œuvre de Dieu déjà là au cœur de l’existence humaine
sans que nous puissions la limiter ni la mesurer. Cette diaconie n’est pas prosélyte ; elle
ne vise pas à faire des disciples ou à remplir les églises ; elle consiste tout simplement à
faire en sorte qu’advienne davantage d’humanité. Comme le dit Philippe Bacq, il s’agit
« de permettre à Dieu d’engendrer des personnes à sa propre vie grâce à une manière
d’être en relation et une manière d’agir inspirées par l’Evangile »36

35
Ibidem.
36
Philippe BACQ, « La pastorale d’engendrement, qu’est-ce-à dire ? », in Lumen Vitae, juillet-septembre
2008, p.300.

33
L’exercice de cette diaconie – la charité - est une fin en soi. Elle s’inscrit par elle-
même dans une dynamique de vie. Parler de Dieu n’est point ici un passage obligé
puisque Dieu lui-même engendre à sa vie sans se poser comme nécessaire. Enracinée
dans l’exercice de la diaconie, la proposition de la foi vient donc comme un surplus,
comme un surcroît, qui s’offre, gratuitement. Et cette proposition de la foi se présente
elle-même comme fondée dans la posture diaconale dont il a été question plus haut :
c’est dire que la proposition de la foi est elle-même, d’abord et avant tout, un acte de
charité envers l’autre à qui l’on offre le meilleur que l’on puisse donner. La proposition
de la foi est une œuvre de charité qui, comme tout acte de charité, est une fin en soi
quelle que soit, au demeurant, la réaction de l’autre, qu’il l’écoute ou non, qu’il
l’accepte ou non. En ce sens, proposer la foi à quelqu’un, c’est d’abord et avant tout la
manifestation de l’estime que l’on a pour lui en raison même de l’amour de Dieu qui lui
est personnellement porté, qu’il le sache ou non, qu’il le reconnaisse ou non.

Un style gracieux
La proposition de la foi invite à reconnaître la grâce infinie de Dieu déjà à l’œuvre
dans l’existence. L’énoncé de cette grâce concerne aussi la manière de la dire, le
processus d’énonciation lui-même, ou, en d’autres termes, le style du discours auquel on
recourt pour proposer la foi. Rappelons-nous à cet égard la phrase de Pierre : «Soyez
toujours prêts à rendre raison de l’espérance qui est en vous, mais que ce soit avec
douceur et respect » (1Pi 3,15-16) Dans cette optique, l’énoncé de la foi implique au
moins deux choses : d’une part, un aspect argumentatif ou apologétique au sens positif
du terme - il s’agit de « rendre raison » -, et, d’autre part, un mode d’énonciation qui
soit lui-même gracieux, empreint de douceur et de respect. Nous avons là deux traits
fondamentaux de la proposition de la foi : plausibilité et gracieuseté.

D’une part, en effet, il convient que la proposition de la foi la fasse apparaître


comme plausible, comme raisonnable, à l’intelligence humaine. La proposition de la foi
ne peut s’accommoder, à cet égard, de paresse intellectuelle. Il s’agit, en effet, de
rendre raison de la foi, c’est-à-dire de la rendre compréhensible, désirable et donc
possible pour l’homme, sans le contraindre pour autant. La proposition de la foi ne
contrait pas, mais «donne à penser ». Elle allie, à cet égard, légèreté et gravité : gravité
pour les questions qu’elle pose, légèreté aussi pour la liberté qu’elle donne. La
proposition de la foi, en effet, ne pèse pas, n’oblige pas, ne presse pas mais s’offre à la
libre reconnaissance de son bien-fondé comme de son caractère salutaire pour la
conduite de la vie.

Cette plausibilité du discours de proposition de la foi qui donne à penser sans


contraindre implique un mode d’énonciation qui soit lui-même gracieux. Comment
caractériser ce style gracieux? Le champ sémantique très riche du mot « grâce » peut
nous y aider. Il comporte les notions de gratuité mais aussi de reconnaissance comme
dans « gratitude ». Il comporte aussi la dimension de pardon comme dans « gracier ». Il
est lié au plaisir et au bonheur comme dans « agréable, agrément ». Il est lié à la beauté
comme dans « gracieux ». Il porte aussi la mention de douceur, de non violence et de
vulnérabilité comme dans « gracile ». Le style gracieux de la proposition de la foi
rassemble tous ces traits de gratuité, de gratitude, de pardon, de plaisir, de beauté et de
douceur. Et ce style gracieux de la proposition de la foi est lui-même expressif de la
grâce de Dieu qui s’y trouve énoncée. Ainsi donc, proposer la foi, c’est la rendre

34
raisonnable et plausible pour l’intelligence, d’une manière qui suscite en même temps
un sentiment de beauté, de plaisir, de grâce et de bonté

La communication de la foi dans une logique de surcroît gracieux


La proposition de la foi, avons-nous dit, est un acte de charité qui est une fin en soi,
indépendamment de la réaction de ses destinataires. Mais, si l’un d’eux se laisse touché
et se met à partager la foi, ce sera alors comme un surcroît lui-même gracieux. En
d’autres termes, si l’adhésion de foi de l’autre advient, ce sera comme une grâce
supplémentaire, comme un motif supplémentaire de communion et de joie. S’il y de la
joie à vivre, s’il y a de la joie à croire, il y a encore de la joie supplémentaire à
communiquer la foi et à croire en communion avec de nouveaux croyants. On est ici
dans une logique de « grâce après grâce » (Jn 1,17) . « Ce que nous avons vu et entendu,
nous l’annonçons afin que vous soyez en communion avec nous, et notre communion
est communion avec le Père et avec son Fils Jésus-Christ. Et nous vous écrivons cela
pour que notre (votre) joie soit complétée » (1Jn 1,5-6). On peut comprendre dès lors
pourquoi Paul disait, dans sa première lettre aux Corinthiens, qu’il trouvait son bonheur
à annoncer l’Evangile et à en gagner quelques uns.

La communication de la foi dans la dynamique de l’engendrement à la vie de Dieu


Cet accès à la joie et à la communion dont il vient d’être question s’inscrit dans une
dynamique d’engendrement à la vie de Dieu. Ainsi le témoin est-il appelé à cultiver en
lui une attitude de sollicitude aimante, pleine d’affection paternelle ou maternelle,
envers autrui, non point qu’il engendre lui-même, mais au sens où, plein d’affection, il
se met au service du passage de la vie de Dieu qu’il ne peut ni mesurer ni maîtriser.
Ecoutons encore Saint Paul à ce sujet : « Nous avons été au milieu de vous pleins de
douceur, comme une mère réchauffe sur son sein ses enfants qu’elle nourrit. Nous avons
pour vous une telle affection que nous étions prêts non seulement à vous donner
l’Evangile de Dieu, mais même notre propre vie, tant vous nous étiez devenus chers.
(…) Traitant chacun de vous comme un père pour ses enfants, nous vous avons
exhortés, encouragés et adjurés de vous conduire de manière digne de Dieu (…) dont la
Parole est aussi à l’œuvre en vous, vous les croyants » (1Th 2,2-13). Que Dieu donne la
vie, sauve, crée et recrée; nous n’y sommes pour rien. Mais, par la proposition de la foi,
nous pouvons, au moins, nous mettre au service de cette Pâque.

Dieu créateur et sauveur est à l’œuvre dans le monde sans nous, avec nous et au-delà
de nous. L’œuvre de Dieu, en ce sens, déborde de toutes parts l’annonce de l’Evangile
et la propagation de la foi. Celle-ci n’ajoute rien au don de Dieu offert à tous
gratuitement et sans mesure, sinon la grâce de reconnaître ce don. Cette reconnaissance
du don de Dieu n’est pas nécessaire pour en bénéficier mais est néanmoins radicalement
précieuse. Elle fait voir l’existence sous un jour nouveau, la transfigure, la renouvelle
en nous donnant de la vivre avec des motifs supplémentaires d’engagement, de
communion et de joie.

35
Luoghi di trasmissione della fede
Battesimo e pastorale battesimale

Serena Nocetti37

Premessa
Vorrei porre in esergo a questo mio intervento le parole di Evangelii Nuntiandi al n.
52; dopo aver ricordato che «il primo annuncio si rivolge specialmente a coloro che non
hanno mai inteso la buona novella di Gesù», Paolo VI sottolinea il fatto che «esso si
dimostra ugualmente sempre più necessario per moltitudini di persone che pur
battezzate vivono al di fuori della vita cristiana». La riflessione sulla pastorale
battesimale –legata alla richiesta e celebrazione del battesimo neonatale- trova in queste
parole il suo orizzonte di motivazione primo, la sua idea forza, il suo senso ultimo

Pur proponendosi come riflessione teologico-pastorale tout court, la riflessione si


dispiegherà tenendo sullo sfondo in modo più specifico il contesto ecclesiale e pastorale
italiano, che negli ultimi anni è segnato da una viva e rinnovata attenzione alla logica
catecumenale nell’iniziazione cristiana (tre Note della Conferenza Episcopale Italiana
sono state dedicate a questa tematica) e al tema del battesimo neonatale come occasione
significativa per un nuovo annuncio e la trasmissione della fede.

Il contesto è quindi quello di una chiesa segnata da un tessuto parrocchiale e di


chiesa di popolo ancora abbastanza coeso e forte (circa l’85% delle famiglie chiede il
battesimo per i propri figli a fronte di una pratica regolare alle celebrazioni eucaristiche
che su questa fascia di età si attesta sul 5-15%). Allo stesso tempo è evidente la
transizione che sta segnando il volto di chiesa italiana, quanto all’appartenenza, ai
processi di formazione, alle forme di istituzionalizzazioni delle relazioni ecclesiali. Il
modello ecclesiale e il correlato modello catechetico ereditati dalla figura post-tridentina
di chiesa non reggono più in un mutato contesto sociale e culturale fortemente
secolarizzato, in una societas non più christiana, in cui i processi di identità si generano
secondo canali formativi e prospettive interpretative del soggetto “altri” rispetto al
passato. Altrettanto evidente e rapida è la trasformazione dell’istituto familiare, delle
relazioni di coppia e parentali, con una pluralizzazione di forme e figure (anche se
permangono differenze rilevanti tra le grandi città e la provincia, tra centro-nord e sud )

L’attenzione al battesimo dei bambini in realtà è richiamata fin dall’inizio degli anni
’70: il Documento base Il rinnovamento della catechesi (una sorta di “Charta” degli
orientamenti per la formazione e la catechesi, che ha determinato tutto il movimento

37
Docente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica dell'Italia centrale.

36
catechistico italiano) ribadisce la necessità di adeguati percorsi di formazione al
battesimo ed è stato redatto uno specifico Catechismo dei Bambini Lasciate che i
bambini vengano a me quale “Libro della fede” per i bambini 0-6 anni e le loro
famiglie.

Documenti recenti della Conferenza Episcopale Italiana segnalano la richiesta del


battesimo neonatale quale momento imprescindibile di incontro con i genitori,
occasione di un primo annuncio oggi necessario e opportunità feconda di possibili
sviluppi; ma è soprattutto la proposta da parte di alcune diocesi di progetti sistematici
di pastorale pre- e postbattesimale a segnare la novità e a offrire piste, a mio parere
significative, per pensare il battesimo neonatale e la proposta formativa e pastorale ad
esso connesso come via e luogo di trasmissione della fede.

La proposta può apparire “paradossale”: l’orizzonte del pedobattesimo che è stato,


come scriveva Hans Urs von Bathasar, «la scelta più gravida di conseguenze per l’intera
storia della chiesa»38, per il volto di chiesa e la comprensione della fede che ha
veicolato, sembrerebbe orientare proprio alla prospettiva di una sacramentalizzazione
imperante e di una forma acritica e tradizionale di appartenenza ecclesiale, quanto di più
lontano da quella ottica di evangelizzazione, primo annuncio, proposta della fede nella
libertà e nella libera adesione della coscienza.

Eppure ritengo questa via possibile e necessaria, sul piano teologico e sul piano
pastorale. Vorrei cioè prendere fino in fondo sul serio il fatto che la chiesa che noi
siamo è comunione di credenti battezzati, che vede il battesimo neonatale come “forma
diffusa”, tanto che il sentire comune (anche nei paesi in cui il catecumenato è diffuso da
lungo tempo e strutturata la proposta di fede) considera “anomala” la forma
dell’iniziazione cristiana dell’adulto, ma chiesa che allo stesso tempo con chiarezza
dichiara il pedobattesimo “forma non tipica” (forma tipica e modello dir ferimento è
quella del RICA).

Vorrei quindi tenere presente che cosa comporta per noi e quali opportunità ci
offre il permanere della richiesta del battesimo neonatale: vedo in questo un elemento di
autocoscienza credente (seppur debole) dal quale non possiamo prescindere a una
grande chance, troppo spesso ignorata o sottovalutata nelle sue potenzialità.

Via possibile e feconda per la trasmissione della fede a patto che si operi una vera e
propria conversione: il passare dalla tradizionale attenzione riservata al momento di
preparazione dei genitori a una visione organica e di insieme del processo di
iniziazione alla fede, che si correla al sacramento, nella forma di preparazione,
celebrazione, mistagogia del battesimo (come accompagnamento del bambino e dei suoi

38
la decisione per il battesimo dei bambini è forse la decisione più carica di conseguenze di tutta la storia
della chiesa, molto tempo prima di Costantino, non solo perché ne resta offuscata l’immagine normale
dell’incontro personale con Cristo e della decisione per lui che si compie in ogni sacramento […]; tutta
l’esistenza cristiana viene, infatti, ormai collocata su un fatto quasi naturale e non ratificato dal soggetto
fin dal principio (H.U. VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica. I. La percezione della forma,
Jaca Book, Milano 1971, 542-543).

37
genitori nella prima infanzia), per cui il battesimo neonatale è “inizio della iniziazione”,
che è sempre iniziazione alla vita cristiana attraverso i sacramenti.

Ciò che risulta grave nell’attuale impostazione pastorale non è tanto la coscienza
debole di fede dei genitori e la fragilità delle motivazioni da loro espresse (come spesso
si lamenta), quanto la coscienza debole e fragile della comunità cristiana, che abdica
alla sua responsabilità educativa nei confronti dei bambini in età prescolare, che accetta,
senza “inquietudini” né domande, il “vuoto di presenza” delle famiglie che hanno figli
in questa fascia di età: risuona “colpevole” l’innegabile “vuoto pastorale” di cui è
responsabile la comunità cristiana, che si disinteressa di fatto di coloro a cui ha donato il
battesimo e che non propone alcuna attività formativa, di iniziazione ai misteri della
fede e alla vita ecclesiale, per i bambini tra 0 e 6 anni e per il loro genitori.

Pastorale battesimale
Parlerò quindi di “pastorale battesimale”, intendendo con questa espressione tutto il
complesso delle attività pastorali, catechetiche, liturgiche, che sono connesse al
battesimo dei bambini, tenendo presente però che ad essa è sottinteso un duplice
percorso: l’accompagnamento e preparazione “pre-battesimale” e la pastorale “post-
battesimale”, l’ambito di attività pastorale in assoluto più carente e debole quanto alla
riflessione e alle proposte.

Sullo sfondo di un elemento di continuità, che è data dal battesimo (sacramento al


cuore e alla fonte di questa pastorale), si danno evidenti differenze tra le due fasi, che
spingono a una considerazione diversificata.

Differenze sul piano degli itinerari (il pre-battesimo è teso a un sacramento, in stretto
collegamento con la motivazione –la richiesta di un rito- che spinge i genitori a
rivolgersi alla comunità) e degli obiettivi perseguiti (nel primo caso la preparazione dei
genitori, nel secondo la co-educazione nella fede di genitori e figli); differenze sul piano
dei soggetti coinvolti (la coppia o il singolo genitore per il pre-; anche il bambino nel
post-) e dei tempi (pochi incontri a fronte di un periodo di sei/sette anni). Nel primo
caso l’annuncio passa attraverso la preparazione a un sacramento, nel secondo
attraverso di formazione ad ampio raggio, legata alla vita e proposta con tempi adeguati
di assimilazione.

Prebattesimo
Per quanto riguarda il prebattesimo se è tradizionale offrire alcuni incontri di
preparazione alla celebrazione (di teologia del battesimo a partire dal dialogo sulle
motivazioni, dal rito, da testi biblici), alcune nuove esperienze si orientano a una
preparazione di più ampio respiro già durante la gravidanza, come momento opportuno
per riflettere alla luce della Parola di Dio sul senso della nascita, della vita, della
genitorialità, con un coinvolgimento attivo della coppia nella vita della comunità, come
testimoni “viventi” della speranza, dell’attesa. Anche nella fase che va dalla nascita
alla celebrazione del sacramento, la proposta di fede passa prima di tutto
dall’atteggiamento di accoglienza e di accompagnamento: la priorità non è data ai
contenuti, ma alla “compagnia della fede”, di una fede capace di dialogo, confronto,

38
proposta sempre rispettosa. L’obiettivo è quello di aiutare a ripensare che cosa voglia
dire “essere cristiani”, nel nucleo sorgivo di questa identità.

Pastorale post-battesimale
per pastorale post-battesimale intendo un percorso di crescita nella fede che vede
come soggetto le famiglie con bambini da 0 a 7 anni.

È un processo di coeducazione alla fede che ha caratteristiche particolari: si svolge


all’interno della vita della famiglia vista come parte della comunità cristiana e si
sviluppa a partire dalla forza del Battesimo che è celebrato.

È un percorso di evangelizzazione, cioè di riscoperta del Vangelo come orizzonte e


luce dell’esistenza quotidiana; il fine è quello di formare una “mentalità di fede”, ma
esso viene perseguito attraverso un processo di formazione integrato di sapere della fede
ed esperienza della fede, nel contesto delle relazioni, comunicative e comunionali,
familiari.

Il contesto è la vita della famiglia, con i suoi ritmi, i suoi tempi e il suo linguaggio, il
suo stile relazionale tipico, nella consapevolezza che essa è il luogo adeguato, anzi, il
luogo “privilegiato” per annunciare il Vangelo e per comprenderlo più profondamente e
in forma nuova.

Per questa sua natura e finalità la pastorale post-battesimale si articola su due livelli.
Il primo, fondamentale, è quello della vita familiare: l’educazione alla fede tra figli e
genitori e tra fratelli. È un’educazione che inizia subito dopo il Battesimo e non ha
momenti specifici, ma si gioca all’interno della vita quotidiana, nella ferialità,
valorizzando tutti i momenti e le occasioni (dallo svegliarsi la mattina al mangiare
insieme, dalla preghiera prima di addormentarsi al festeggiamento del compleanno),
come anche dedicando alcuni momenti specifici alla proposta esplicita della fede da
parte dei genitori, in particolare attraverso la narrazione e la lettura di testi biblici. Il
secondo livello, sussidiario a quello familiare, è rappresentato dagli incontri formativi
vissuti nella comunità parrocchiale, in piccoli gruppi di famiglie. Questo secondo
percorso è orientato ad aiutare i genitori a maturare la consapevolezza di essere
educatori alla fede dei figli, ed insieme di essere educati da loro per un’ulteriore
maturazione alla fede, e teso a offrire suggestioni e strumenti utili per la vita familiare.
Sono momenti di dialogo e confronto fra adulti, esperienze di gioco e riflessione per i
bambini, con occasioni celebrative da vivere insieme, che permettono di sentirsi ed
essere parte della comunità più vasta.

I soggetti coinvolti sono quindi prima di tutto i genitori (non parliamo mai di
“famiglia”, ma incontriamo e convochiamo gli adulti a partire dal loro status
genitoriale) e i bambini, nel riconoscimento (fondato psico-pedagogicamente) che
anche il neonato è soggetto reale nella relazione e il bambino, indirettamente (con la sua
presenza, appello, bisogno) o direttamente (quando cresce la sua competenza verbale),
soggetto di annuncio evangelico per i suoi genitori e per la comunità cristiana. Accanto
e intorno a loro, il resto della famiglia (in particolare fratelli/sorelle e nonni) e il resto
della comunità (in primis operatori di pastorale post-battesimale, presbiteri e diaconi).

39
Ritornare al principio
Perché possiamo riconoscere una possibilità così significativa al battesimo neonatale
per la trasmissione della fede? Vorrei ritornare a considerare il fondamento teologico e
il quadro pastorale; ritengo essenziale radicare più in profondità le nostre motivazioni di
operatori pastorali.

L’identità cristiana è un’identità battesimale: alla radice del nostro essere cristiani
c’è questo dono ricevuto da Dio nella chiesa e, allo stesso tempo, tutta la nostra vita di
cristiani sta sotto la logica di una appropriazione progressiva di questo dono che segna
la nostra identità (il nostro essere ed esistere profondo). Si tratta di imparare a
comprendere il battesimo in un’ottica dinamica: non come atto puntuale e concluso in
se stesso, ma guardando all’identità battesimale che scaturisce dal dono sacramentale,
dal e nel grembo della chiesa; il battesimo come sorgente della soggettualità del
cristiano, che è soggettualità escatologica e storica, segnata dal divenire e dalla crescita.

Si tratta allora di cogliere la natura di inizio, incoativa, del battesimo e riconoscere


che il bambino battezzato non è ancora membro a pieno titolo della comunità cristiana e
deve essere accompagnato a questo obiettivo: colui che «è nato da Dio» nelle acque
battesimali, vive del dono di grazia ricevuto ma deve appropriarsene progressivamente,
definendo la sua identità, anche nella consapevolezza riflessa, sulla base di questo
principio di vita e di identità. La responsabilità educativa non può quindi essere
misconosciuta come elemento essenziale di questa appropriazione: come mostrano le
domande rivolte ai genitori presenti nel Rito: «Cosa chiedete alla chiesa di Dio? Il
battesimo. Siete consapevoli di questa responsabilità?». La richiesta del sacramento, di
un dono di grazia, fatta dai genitori alla chiesa è rimandata alla responsabilità educativa
che è connessa a tale richiesta.

Se nel caso dell’adulto la preparazione (annuncio, catecumenato, preparazione


immediata) precede la celebrazione dei sacramenti di iniziazione (questa è e rimane la
forma tipica per i cristiani), nel caso del bambino il battesimo è il punto di inizio a cui
segue la formazione catechistica e la celebrazione di altri due sacramenti di iniziazione:
al battesimo deve seguire la proposta di primo annuncio e la catechesi, la libera scelta
del soggetto e l’assunzione di una soggettualità reale nella comunità.

Nel caso del battesimo neonatale si rende maggiormente evidente l’importanza della
mistagogia e si ribadisce la natura ecclesiale della fede cristiana. La pastorale post-
battesimale è percorso di mistagogia, quel tempo essenziale per la comprensione “più
profonda” del mistero celebrato, alla luce della Parola, quel periodo in cui fare
esperienza di vita cristiana, sulla quale poi si riflette, e acquisire le parole per dire il
vissuto di fede, con una forte interazione tra piano celebrativo e vita feriale. In secondo
luogo, appare evidente che quella che viviamo e trasmettiamo è una fede ecclesiale, in
una chiesa popolo di Dio; il bambino è battezzato nella fede della chiesa, sulla richiesta
dei genitori, e con il suo essere battezzato attesta alla comunità cristiana un aspetto
essenziale del suo vivere: il battesimo neonatale attesta che c’è una grazia di Dio
assolutamente preveniente, che precede qualsiasi professione di fede soggettiva da parte
dell’uomo, un dono gratuito di Dio che trasforma la nostra esistenza, e insieme
testimonia e contribuisce al volto di chiesa popolo di Dio, un popolo fatto non da

40
illuminati e perfetti, ma da persone di diverse età, con diversi livelli di comprensione, di
maturazione ed esperienza di fede.

Chiarire le motivazioni e accettare la sfida


La scelta di riconoscere nel battesimo un luogo favorevole di trasmissione della fede
trova ulteriore motivazione quando si prendono in considerazione i soggetti coinvolti, i
genitori e i bambini, tenendo presenti le implicazioni sul piano psicopedagogico
connesse alla fase e situazione di vita che sono loro proprie.

Dalla parte dei soggetti


Nel caso dei genitori si troviamo davanti a un passaggio chiave di vita adulta, o
meglio di percezione della adultità e di ingresso pieno nella vita adulta: la maggior parte
delle ricerche sociologiche segnalano il divenire padri/madri come passaggio definitivo
all’età adulta; non più il lavoro, né la scelta di vita fanno da confine, ma la paternità-
maternità, con il loro tratto di condizione irreversibile. L’esperienza del giocare se stessi
in un rapporto di cura, il dare la vita, l’esperienza estatica che stanno vivendo
tratteggiano nuovi contorni all’identità di questi neo-adulti e alla loro vita di coppia;
svolta non facile, né immediata, vissuta da trenta/quarantenni si tratta di un vero e
proprio kairòs, occasione opportuna, momento di grazia che permette di percepire in
modo nuovo il vangelo della vita che è al centro del kerygma cristiano.

Se quindi troppo spesso ci limitiamo come chiesa a stigmatizzare le motivazioni


insufficienti o ambigue (ritualizzare la nascita, Battesimo come segno del “religioso” o
di appartenenza tradizionale alla comunità, liberazione dal peccato originale), dobbiamo
convertirci a cogliere in esse una espressione di fede iniziale, che talora non ha parole
per dirsi, e il punto di partenza possibile per un cammino. Anche coloro che non sono
praticanti, anche coloro le cui motivazioni ci appaiono particolarmente deboli, nel
momento in cui chiedono il battesimo per il proprio figlio mostrano in realtà
un’intuizione, seppur piccola e incoativa, del valore della fede cristiana, della forza
trasformativi del sacramento e dell’appartenenza ecclesiale. C’è quindi un elemento di
coscienza credente e di autocoscienza di Chiesa che segna i genitori e i parenti che
chiedono il sacramento, elemento che non può essere sottovalutato con giudizi affrettati,
ma che deve essere riconosciuto nel suo essere “appello implicito e sconosciuto a chi lo
propone”. Da questo si può partire per un annuncio esplicito e liberante, che permetta di
decostruire precompensioni sul cristianesimo non fondate, ricevute magari nell’infanzia
e mai più discusse o riviste, e insieme di proporre il vangelo del regno come buona
notizia di realizzazione e di pienezza di vita.

La pastorale battesimale prende sul serio fino in fondo la vita del bambino
battezzato e la sua soggettualità. La fase di vita che va dalla nascita ai 6/7 anni è un
tempo centrale e fondamentale nella vita, anche di fede. L’apprendimento dei modelli
relazionali che avviene nella prima infanzia e che vede nella famiglia un luogo primario
influisce sulla modalità di relazione con Dio che il bambino vivrà.

Il processo della venuta a coscienza della fede ha la struttura fondamentale


dell’interiorizzazione di significati proposta al bambino da persone significative (in
particolare i genitori). Questi significati sono proposti non solo con la comunicazione

41
verbale, ma attraverso le forme delle relazioni vissute. L’interiorizzazione della fede
non prescinde dalle strutture intellettuali-mentali, relazionali e comportamentali che il
bambino matura; per questo il linguaggio della comunicazione della fede è quello del
quotidiano, laddove la dimensione simbolica e narrativa sono privilegiate.

Bambini e genitori, in questo momento delicato di vita che stanno vivendo, nel
quale si definiscono o ridefiniscono i contorni dell’identità umana e cristiana, non
vengono mai appellati quali destinatari, ma come colti come soggetti di un itinerario di
evangelizzazione, anche se animati, sostenuti, accompagnati da alcuni che nella
comunità cristiana fanno questo servizio di motivazione, formazione esplicita,
sussidiazione. Il passaggio di vita sul piano umano e la celebrazione sacramentale del
battesimo del bambino diventano crocevia nel quale è possibile leggere la vita come
segnata dal dono di Dio, dalla sua presenza, dal suo rivelarsi, e nel quale diventa
necessario ascoltare il vangelo della vita, come luce necessaria per i passi di grandi e
piccoli.

Dalla parte della comunità cristiana


Se in questo tempo è ormai diffusa la consapevolezza che “cristiani non si nasce, ma
si diventa” e che il pedobattesimo è portatore di uno specifico valore teologico, risulta
essenziale favorire il processo di evangelizzazione che ad esso è connesso.

Dobbiamo riconoscere il valore di questa richiesta ancora diffusa come espressione


di una autocoscienza credente che deve crescere e maturare, oltrepassare questo vuoto
pastorale che come comunità cristiana manteniamo in modo inspiegabile e colpevole e
accettare la sfida della “pastorale battesimale”. Accettare cioè di far diventare ciò che
sembra il confine ultimo di un sacramentalizzazione a oltranza, non rispettosa della
libertà del soggetto, uno spazio privilegiato di proposta di fede.

Questo comporta da un lato il “riconoscere” il battesimo dei bambini nella sua


logica di “dono/appropriazione” e rinnovare la pastorale di iniziazione a partire dalla
mistagogia battesimale, legata alla crescita umana in tutte le sue dimensioni, dall’altro
“riconoscere” realmente il ruolo dei genitori nell’educazione alla fede, per rinnovare la
pastorale con un movimento di delocalizzazione e di coinvolgimento di forme e
linguaggi nuovi.

Principi ispiratori e criteri per l’azione pastorale


Diventa allora essenziale definire con chiarezza quali siano i principi ispiratori e i
criteri di una tale azione pastorale.

La proposta riposa su una convinzione propria del cristianesimo, che coniuga


sempre dato teologico ed elemento antropologico: l’esperienza religiosa cristiana è parte
integrante del processo educativo globale e lo sviluppo della dimensione religiosa è
connesso con lo sviluppo psicologico, cognitivo, affettivo, motivazionale, sociale (del
bambino e del genitore). Nella pastorale post-battesimale è essenziale tenere presente i
principi psico-pedagogici che sovrintendono allo sviluppo del bambino e alla
maturazione dell'adulto, per annunciare (e credere) al Dio presente alla vita di ognuno.
Non è quindi al centro la preoccupazione di una presentazione sistematica e organica

42
(esaustiva) di tutti i contenuti di fede, ma l’iniziazione a l’accoglienza del primo
annuncio di una fede cristiana che dà vita in pienezza, sotto tutti gli aspetti del vivere
umano e che permea ogni esperienza relazionale, morale, sociale. Quello che sta a cuore
è un processo di formazione integrato, che contempli le diverse dimensioni della vita
umana e il suo divenire incessante, attraverso fasi e tappe, in una correlazione vitale tra
esperienza della fede e sapere della fede, che forma e trasforma progressivamente il
bambino come l’adulto.

In secondo luogo la proposta si sviluppa tenendo presente la distinzione tra fede e


professione di fede. La fede è un fatto interiore che segna la nostra vita nell’affidamento
al Signore, che può vivere il bambino come l’adulto e che ciascuno matura nel corso
della sua esistenza a partire dall’ascolto della Parola e da una riflessione sull’esistenza
vissuta alla luce del Signore. La professione di fede richiede da un lato una mentalità di
fede, cioè vivere la fede nel quotidiano confronto con la vita, dall’altro un’esplicitazione
in parole.

In terzo luogo, l’attenzione ai molti linguaggi della nostra esistenza contrassegna la


passione per una pastorale battesimale, in cui questi diversi linguaggi, che non sono mai
sacrali o segnati dalla banale ovvietà di un linguaggio religioso pre-formato e ormai
incapace di autenticità vitale e incisività, si intrecciano, tra verbale e non verbale.

I criteri operativi sgorgano direttamente da questi principi orientativi. Si tratta di


partire sempre dai soggetti e dai loro bisogni, avvalendosi del contributo di psicologi e
pedagogisti, di offrire una proposta adulta agli adulti e insieme adeguata alla fasi di
crescita del bambino; di garantire processi comunicativi pluridirezionali e non più
unidirezionali (da chi sa –il clero- a chi non sa -il laico; dall’adulto al bambino), nella
consapevolezza che insieme ascoltiamo la Parola, insieme la comprendiamo, insieme
siamo chiamati a proclamarla ed esprimerla; di valorizzare i luoghi della vita, in
particolare la casa, luogo degli affetti, di gioie e dolori, di crescita e di conflitto, per
troppo tempo misconosciuta nel suo statuto di “luogo ecclesiale” e luogo principe della
trasmissione iniziale della fede e delle parole della fede; distinguere tra i primi tre anni
di vita e i tre successivi (diversa è, infatti, la possibilità del bambino di una soggettualità
tematizzata e interagente anche verbalmente con l’adulto, e di capacità espressiva).

Perché il battesimo sia luogo di trasmissione della fede: condizioni


necessarie
In nome della testimonianza di vita, dell’esempio morale e religioso, non va
sottovalutata la necessità che l’adulto garantisca un annuncio esplicito della fede al
bambino e che l’adulto stesso si esponga alla memoria rischiosa del vangelo che gli
viene annunciato. Sostenuti dal desiderio di condividere la fede come ciò che è fondante
nella vita quotidiana, dalla consapevolezza della responsabilità accolta di educare il
figlio alla fede, dalle sollecitazioni che possono (e devono) venire dalla comunità
parrocchiale a fare questo, i genitori sono investiti del compito, arduo e oggi non
immediato, di dare un annuncio esplicito di cosa voglia dire essere cristiani, di quali
siano i contenuti propri della fede, modulando tale proposta secondo la gerarchia di
verità e secondo le possibilità di apprendimento del bambino nelle diverse fasi di vita.

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Tre vie appaiono feconde in questa prospettiva: quella che parte dalle domande della
vita, della crescita del bambino, dell’educazione; quella che annuncia il mistero
pasquale a partire dall’evento e dalla logica battesimale; quella che ritorna al nucleo del
kerygma cristologico in una ottica di “cristologia dal basso”, Gesù uomo realizzato,
Gesù profeta, Gesù messia.

Al cuore di ogni proposta (quella degli adulti e quella i bambini) rimane la Parola di
Dio, interpretante e interpellante, capace di aprire nuovi orizzonti e di decodificare il
misteri del vivere, capace di insegnarci la difficile arte delle domande e la faticosa via
della ricerca e dell’impegno responsabile. In particolare per il post-battesimo al centro
della vita della famiglia sta il binomio inscindibile “Bibbia - ritualità familiare”.

L’ultimo criterio operativo: la pastorale pre- e soprattutto post-battesimale vive della


instancabile e inesausta convocazione permanente di tutti i genitori, a cui la proposta
di formazione per loro stessi e per i figli viene sempre rifatta, segno e volto di una
chiesa vicina e attenta alla crescita, appassionata di un vangelo davvero per tutti da
comprendere insieme, con l’apporto di tutti. Nessuno, infatti, è mai semplice
destinatario di un annuncio, ma ognuno è a un tempo ascoltatore e soggetto attivo di
interpretazione e locuzione delle esperienze spirituali e delle parole trasmesse (DV 8).

Una scelta pastoralmente strategica


La considerazione complessiva dell’impianto di questa proposta pastorale e la
ricognizione dei criteri teologici ed operativi che la motivano e la sostengono permette
di coglierne la novità profonda e le virtualità. La pastorale battesimale può diventare
chiave di volta e punto di forza per un rinnovamento della pastorale in ottica di
evangelizzazione, perché parte dalla situazione concreta e valorizza la richiesta di fede,
anche debole o parziale dei genitori; perché non rinuncia allo specifico della missione
ecclesiale (evangelizzare), ma lo fa nella forma di dare parole esplicite all’esperienza di
fede nel quotidiano; perché valorizza la sorgente dell’identità cristiana come identità
battesimale e mostra di credere realmente alla forza del sacramento; perché inserisce il
sacramento –come faceva la chiesa antica– in un processo progressivo catecumenale,
nel quale sono presenti (anche se in ordine diverso) tutti gli elementi essenziali
(annuncio, professione di fede, sacramento, vita).

Se le resistenze sono innegabili, come d’altronde avviene per ogni campo nuovo di
attività soprattutto quando si toccano modelli catechetici ormai invalsi nel sentire
comune, e se l’attuazione richiede molte forze, oggi destinate ad altre attività pastorali,
diventa essenziale procedere con convinzione in questa direzione.

Il futuro della chiesa è legato alla possibilità di far risuonare in modo nuovo il
Vangelo, in particolare agli adulti, e il post-battesimo prende sul serio e rende possibile
proprio questa difficile sfida. Le nostre chiese sono chiamate a divenire “comunità di
credenti”, composte di bambini e di adulti, capaci di vivere, ciascuno secondo il proprio
livello di esperienza di fede e di professione di fede, l’essere cristiani sulla base
dell’unico battesimo, l’essere popolo di Dio. La pastorale battesimale può aiutarci in
questo, anzi può divenire il motore di quel cambiamento complessivo del volto di chiesa
che tanti attendono e desiderano.

44
La transmission de la foi aux jeunes

Lode Aerts39

Dieu prend son temps


Les jeunes en église ne forment pas ‘une foule immense que nul ne peut dénombrer’
(Apoc 7,9). Les chiffres sont si modestes en Europe que beaucoup en perdent courage.
Cette peine est compréhensible, mais elle n’est pas productive. Peut-être, cette crise de
la pastorale des jeunes peut nous montrer davantage le chemin de Dieu : un chemin sans
pression, un chemin d’amour et de patience infinie.

Cela ne veut pas dire que Dieu ne s’intéresse plus aux hommes, ou qu’Il se contente
avec une petite secte, ou qu’Il serait élitaire. Au contraire, Dieu veut être proche de
toutes ses créatures sans exception. Cela se remarque dès la première page de l’Ecriture.
La Bible ne commence même pas avec l’Eglise. Le philosophe juif, Rosenzweig l’a dit
merveilleusement:

‘Dieu n’a pas créé la religion, mais le monde’40.


Pour Dieu, il s’agit tout d’abord d’Adam, ce qui veut dire : de l’homme, de
l’humanité. C’est le monde entier qui tient à coeur à Dieu. Il recherche une alliance avec
tous les hommes de toute génération et Il désire que cette alliance et cette paix
deviennent réelles pour les hommes entre eux.

C’est la vision magnifique sur laquelle la Bible se termine : le ciel nouveau et la terre
nouvelle, la ville de la paix, la ville aux portes ouvertes, la ville qui n’a même plus
besoin de Temple. Un bâtiment religieux séparé devient à la fin superflu, car Dieu
habitera alors pleinement parmi les hommes et la terre sera remplie de sa paix (Apoc
21).

Ce que Dieu souhaite avec tous les hommes, Il ne peut pas le forcer. L’alliance à
laquelle Il a appelé tout vivant, Il ne peut pas l’imposer. Cela détruirait toute relation.
Les jeunes sont spécialement sur leur garde devant toute forme de contrainte. Ils ont
raison : l’amour véritable suppose la liberté, et c’est pour cela que chaque relation
d’amour est si fragile. Dieu veut respecter la liberté de son partenaire. Dieu ne voulait
pas relier d’un coup tous les hommes à Lui. Il ne pouvait faire autrement que de
commencer en liberté avec quelqu’un. Il s’est adressé à une personne en premier :

39
Vicaire épiscopal pour la formation dans le diocèse de Gand (Belgique).
40
F. ROSENZWEIG, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, Den Haag, 1976, 153: ‘Gott hat
eben nicht die Religion, sondern die Welt geschaffen’.

45
Abraham, dans l’espoir que cet homme réponde. Cet homme a répondu. Et cet homme
appelle le Seigneur : « mon ami » (Is 41,8).

Comme dans toute amitié, Dieu veut être discret, sans insistance. Dieu agit avec nous
un peu comme le soleil avec les plantes au printemps: Il « nous attend jusqu’à ce que
nous nous ouvrions »41. Le chemin de Dieu est un chemin de grande patience.

Le chemin de Dieu n’est probablement pas le chemin que nous prendrions


spontanément. Imaginons un instant que nous soyons nous-mêmes Dieu. Nous
prendrions certainement un autre chemin. Si nous étions les créateurs du monde, nous
nous mettrions au travail de façon plus efficace. Nous aurions créé la jeunesse dès
l’origine comme catholique. Nous leur implanterions un chip religieux, de sorte qu’ils
soient d’eux-mêmes des catholiques convaincus, qui iraient chaque dimanche à la
Messe. Un tel projet ne pourrait qu’échouer, car l’impulsion programmée rendrait
impossible tout choix libre et toute conviction.

C’est le drame de notre histoire moderne. Comme modernes, nous n’avons pas le
temps. Au nom d’idéaux très humains, on a voulu accélérer l’histoire humaine. Pour un
développement plus rapide de la fraternité, Staline, Hitler, Mao et d’autres dictateurs
dans nos pays de l’Est et de l’Ouest ont fait des millions de morts dans des guerres
sanglantes, des déportations et des camps de rééducation. Ce sont des leçons atroces que
nous ne pouvons pas oublier en Europe. Le bonheur et la fraternité, la paix et la
tolérance ne peuvent être imposés. Dieu ne veut pas endoctriner. Il peut seulement
fasciner. Pour cela, Il a besoin de l’église et des communautés paroissiales, qui petit à
petit montrent aux jeunes et aux moins jeunes son amour. Voilà une expérience
essentielle de la Bible :

« Nulle part, la Bible ne s’occupe de projets pastoraux ni de stratégies pastorales.


Au lieu de cela, elle montre presque à chaque page que Dieu n’agit pas partout à la
fois, mais parfois de façon très intense à un endroit concret. Il n’agit pas à chaque
moment, mais parfois à une heure déterminée. Il n’agit pas à travers toute personne
indifféremment, mais parfois très intensément à travers des personnes qu’Il choisit.

Si nous ne pouvons pas comprendre cela à nouveau, il n’y aura pas de renouveau
dans l’Eglise aujourd’hui. Car ce vieux principe de l’histoire du salut vaut encore
aujourd’hui »42.
Voici le plus profond motif d’existence de l’Eglise et de la paroisse. Elle est le lieu
indispensable où maintenant déjà est visible ce que Dieu vise pour toute sa création.
Bien plus que toutes sortes de questions pratiques et organisationnelles, la pastorale des
jeunes doit avoir en vue la question la plus essentielle dans notre période de transition.
Elle concerne Dieu et son monde. Où Dieu agit-Il aujourd’hui ? Comment rassemble-t-
Il des personnes pour rendre son amour visible pour tous, pour les jeunes et les moins
jeunes ? Comment son plan devient-il réalité dans ce monde ? Car cela est typiquement
biblique : Dieu a un plan avec sa création et il est essentiel qu’il y ait des lieux où ce

41
H. OOSTERHUIS, Bid om vrede, Baarn, Ten Have, 2000, 7.
42
G. LOHFINK, Braucht Gott die Kirche? Zur Theologie des Volkes Gottes, Freiburg/Basel/Wien,
Herder, 1998, 10.

46
projet peut être reconnu. C’est seulement dans de tels lieux que des jeunes et des jeunes
adultes peuvent être rejoints par la Parole de Dieu.

Dans cette situation relativement nouvelle, il nous faut redécouvrir et approfondir


notre foi. Il nous faut vivre l’évangile d'une façon plus authentique. Ceci est tout d'abord
une mission interne pour notre communauté d'Eglise. Dans un très beau petit livre, frère
Enzo Bianchi de Bose en Italie affirme que

« parmi les destinataires de l’évangélisation – certainement aujourd’hui, mais peut-


être toujours – nous devons aussi placer les chrétiens »43.
Pendant toute notre vie, nous restons des disciples.

Va au large
Les premiers disciples de Jésus étaient des pêcheurs du lac de Tibériade. Leur appel
est précédé dans l’évangile de Luc par une pêche miraculeuse et par cette parole que
Jésus adresse au pêcheurs : ‘Avance en eau profonde et jetez les filets’ (Lc 5,4). Or, on
peut traduire aussi : ‘Va au large’ (eis to bathos).

Nous sommes tous un peu comme ces pêcheurs de la première heure. Nous voici,
comme des pêcheurs après des nuits de travail souvent infructueux. Nous doutons de
nous-mêmes. Surtout sur le lac de la pastorale des jeunes, nous nous inquiétons pour
l’avenir. Mais Jésus vient. Il fait confiance à nous, les hommes déçus. Il nous incite à
nous engager nous-même et à nous dépasser. ‘Avance en eau profonde’, dit-Il, ‘va au
large, et jetez les filets’.

D’emblée apparaît la double dimension du travail demandé : il s’agit d’avancer en


profondeur et non plus en surface, dans la profondeur de notre foi, fondée sur la Parole.
Du même mouvement, il s’agit de voir large, d’oser regarder largement cette humanité
qui est la nôtre, cette société qui est la notre et cette jeune génération, qui est la notre.

Ouverture et identité
Pour aller au large, pour avancer en profondeur, il nous faut autant une ouverture
accueillante qu'une identité mûre.

Pour une Eglise ouverte


D'une part, il nous faut aller au large sans peur. L’Eglise est là pour le monde, pour
tous les hommes, donc également pour les jeunes. Ici, l'ouverture et la confiance sont
indispensables. Voilà le grammaire simple de tous les discours de Frère Roger Schutz et
de Frère Aloïs à Taizé : ‘confiance, confiance et encore une fois la confiance’. La
constitution pastorale sur l’Eglise du deuxième concile du Vatican nous demande de
vivre dans la compagnie des hommes et des femmes d’aujourd’hui.

43
E. BIANCHI, Come evangelizzare oggi ?, (Sympathetika), Magnano, Edizioni Qiqajon, 1997, 19-20.

47
« Les joies et les espoirs, les tristesses et les angoisses des hommes de ce temps,
des pauvres surtout et de tous ceux qui souffrent, sont aussi les joies et les espoirs,
les tristesses et les angoisses des disciples du Christ »44.
Une Eglise accueillante respecte les jeunes comme ils sont. Certainement dans notre
culture moderne, ils sont fort portés sur leur liberté personnelle, ce qui est d’ailleurs
indispensable pour la vraie foi. Personne ne peut devenir chrétien sous la pression. Ce
qu'il leur faut, c'est pouvoir en toute liberté s'ouvrir à la présence de Dieu au milieu de
leur propre expérience de vie. Or, cette découverte se passe au rythme individuel de
chacun. Les jeunes en particulier doivent faire tout un chemin pour arriver pas à pas à
reconnaître le Seigneur qui les accompagne.

Ce n'est pas par hasard que la figure du pèlerin est devenue icône de la transmission
de la foi. Le chemin que les jeunes parcourent vers Taizé, Compostelle, Chestochowa
ou Assise, reflète leur propre chemin de vie avec ses multiples péripéties. L'Eglise doit
créer de l'espace pour ce chemin; elle doit y accompagner les jeunes, en écoutant avec
compréhension leurs questions et déceptions, comme le Seigneur en route vers Emmaüs
(cf. Lc 24, 15-24).

Retrouver le propre trésor


D'autre part le Seigneur n'est pas uniquement à l'écoute durant le cheminement. Il
prend aussi la parole. Sur le chemin d'Emmaüs Il raconte ce qui, chez Moïse et les
Prophètes concernait le Messie. Il fait brûler leur cœur au moment où Il leur révèle les
écritures et Il leur ouvre les yeux à sa mystérieuse présence (cf Lc 24, 25-32).

Quand l'Eglise veut cheminer avec les jeunes, elle ne peut pas faire autrement.
Comme bonne hôtesse elle doit non seulement respecter les jeunes dans leur spécificité
mais doit aussi leur donner l'occasion d'apprendre à connaître sa propre tradition.

Franchement, cela place la pastorale des jeunes devant des questions pertinentes. De
notre passé ecclésial en Europe, il reste une large offre de services pour les jeunes dans
les domaines de la détente et de l’éducation. Nous y tenons compte autant que possible
des besoins des jeunes, mais la question de notre identité s’y pose toujours plus
clairement. Quelle est l’inspiration de ce que nous proposons ? Ne souffrons-nous pas
parfois d’une forme de perte d’identité ? Nous connaissons tous la devise
philosophique : « Cogito, ergo sum », « Je pense, donc je suis »45, mais notre devise
ecclésiale pourrait bien ressembler à « Incognito, ergo sum »46, « Je reste inconnu, donc
je suis ».

Comment des jeunes peuvent-ils prendre goût à l’Evangile, si nous leur donnons au
plus une subtile allusion qui n’est reconnaissable que par quelqu’un d’intelligent qui en
est familier depuis longtemps ? Pouvons-nous ainsi conduire des jeunes vers une vie

44
Gaudium et Spes, 1.
45
R. DESCARTES, Le discours de la méthode, pour bien conduire sa raison et chercher la vérité dans les
sciences, IV.
46
Voir : J. SACKS, Judaïsme et politique dans le monde moderne, in : P. BERGER (dir.), Le
réenchantement du monde. Traduit de l’anglais par J.-L. POUTHIER, Paris, Bayard, 2001, 92.

48
chrétienne ? Nous ne devons pas nous faire d’illusions : les temps ont
fondamentalement changé. La plupart des jeunes et des jeunes adultes ne savent à peu
près rien de la foi chrétienne de l’intérieur. Si nous nous situons simplement incognito
dans le travail avec les jeunes, nous ne pourrons que difficilement être interpellants. Le
pire pour l’évangélisation est le message implicite qu’on peut bien devenir chrétien mais
que cela ne change en rien la vie.

« Nous devrons plus clairement que les années précédentes montrer et réaliser
qu’être authentiquement chrétien en paroles et en actes fait réellement une
différence par rapport à une vie non-chrétienne. Si nous n’y réussissons pas, alors
l’indifférence augmentera certainement »47.
Cela ne veut naturellement pas dire que nous devions contre leur gré couvrir les
jeunes de formules de catéchisme. Cela veut encore moins dire que nous devions leur
imposer la foi. La foi est une aventure de confiance et elle ne peut jamais être transmise
sans liberté. Lorsque des jeunes après une première prise de contact sont intéressés et
posent des questions, nous devons trouver les mots justes et poser les gestes qui leur
font connaître la foi à leur rythme. Autrement l’hospitalité ecclésiale n’accueillera que
peu de monde par manque d’un hôte reconnaissable.

Pour une belle et simple liturgie


Dans le récit de jeunes convertis aujourd'hui, il est souvent exprimé que la beauté de
la liturgie leur a ouvert la porte vers la foi. C'est précisément dans une culture
étroitement rationaliste et verbale que la liturgie exerce sur eux une attraction parfois
surprenante.

Demandez à dix jeunes ce qui les a le plus frappés durant leur séjour dans la
communauté de Taizé. Au moins neuf d'entre eux répondront qu'il s'agit des moments
de prière ! C'est la liturgie qui offre, en effet, à ces jeunes une occasion unique
d'expérimenter la présence de Dieu. Comment comprendre cela plus en profondeur ?
Comment de telles célébrations de prière très simples peuvent-elles mettre en marche
des milliers de jeunes ?

Entrons avec les jeunes dans l'Eglise de la Réconciliation à Taizé. L'espace est
relativement sombre. Nous découvrons quelques icônes entourées de bougies allumées.
Ce sont des icônes de l'incarnation, de la transfiguration et de la résurrection. Plus loin,
nous voyons l'ambon portant le livre de la Bible, l'autel et une lumière près de la
Réserve eucharistique. L’église est belle dans sa simplicité.

La simplicité et la sobre beauté ne captent pas seulement notre oeil. L'ouïe est
également interpellée. Les chants de Taizé sont remarquables à cet égard. Des mélodies
simples invitent des groupes nombreux à chanter ensemble à plusieurs voix. On chante
en différentes langues afin de favoriser l'harmonie entre les différentes nationalités.
Dans les chants de Taizé, un court verset biblique est continuellement repris, de telle

47
J. BULCKENS, Spreken over God in de hedendaagse leefwereld van jongeren. Het ‘evangelisch
verschil’, in : H. VAN GROL – J. HAHN (red.), Spreken over God in de jongerencultuur, Hilversum,
Gooi en Sticht, 1988, 22.

49
sorte que le message imprègne peu à peu le coeur. La répétition fait penser aux
traditions anciennes. Cela ressemble à la tradition orientale de la Prière de Jésus, ou à
notre Rosaire latin. Quelques phrases sont sans cesse répétées. Lentement, mais
sûrement, elles réalisent quelque chose dans le coeur de l'homme. Lentement, mais
sûrement, la liturgie accomplit son oeuvre.

En effet, la liturgie a tout à voir avec un événement, une action. Le mot se termine
par -urgie, ce qui signifie travail (ergon en Grec). Dans la liturgie Dieu est lui-même à
l'oeuvre. Si la célébration devient prétexte à donner un cours de catéchèse ou de morale,
elle est dans l'erreur et elle chassera les jeunes et les adultes. C'est en réalité la mort de
la liturgie que de vouloir, avec les meilleures intentions du monde, expliquer les rites et,
de cette façon, les détruire. Une action liturgique parle par elle-même ou ne parle pas du
tout. C'est la première règle en liturgie :

« Ne dis pas ce que tu fais,


mais fais ce que tu dis. »48
Ceci est en réalité une profonde sagesse humaine. Nos actes sont tellement plus forts
que nos paroles. Quel jeune qui se trouve à une fête aurait l'idée d'ennuyer son amie
avec des spéculations interminables au sujet de la danse au lieu de s'élancer sur la piste
et de danser avec elle ? Il n'y a pas de doute que le langage du corps est le langage le
plus fort. Il en est de même dans la liturgie. Nous devons redécouvrir la force des gestes
et des symboles. Nous sommes trop souvent tentés d'expliquer les symboles, tout
comme ce pseudo philosophe de la piste de danse. Mais ce faisant, nous admettons que
le rite ne fonctionne plus.

A la source d’une liturgie authentique, les yeux des jeunes peuvent s'ouvrir à la
venue de Dieu. Mais ces jeunes peuvent aussi nous ouvrir les yeux. En tant que
nouveaux venus, ils peuvent nous apprendre à redécouvrir et goûter nous-mêmes la
beauté du mystère de la liturgie. Un témoin au-dessus de tout soupçon à cet égard est
Olivier Clément, le théologien orthodoxe autorisé. Il le dit de manière à la fois simple et
pénétrante :

« Il faudrait faire une pédagogie des prêtres et des pasteurs pour essayer de leur
dire que ce qui peut le plus toucher les gens, c’est une belle et simple célébration.
Certains ont parfois l’impression au contraire que c’est fini, que les gens n’en
veulent plus, et il y a vraiment là une erreur très profonde. Il faut qu’ils
redécouvrent la force de la liturgie. En Occident, il faut vraiment retrouver le sens
49
du mystère dans les paroisses. »

La Bible comme une parole vivante


La liturgie aide également à baisser le seuil pour entrer dans la Bible. Evidement, il
ne s’agit pas surtout d’un livre religieux d'antan qu’on peut analyser de façon

48
L.-M. CHAUVET, Les sacrements. Parole de Dieu au risque du corps (Recherches), Paris, Les
Editions de l’Atelier, 1993, 116 : « ne dites pas ce que vous faites, faites ce que vous dites ».
49
O. CLEMENT, Taizé. Un sens à la vie. Lettre-préface de frère Roger, de Taizé, Paris, Bayard –
Centurion, 1999, 69.

50
scientifique. Dans la lecture biblique, il nous faut découvrir la parole vivante de Dieu,
qui s'adresse également à nous.

N’oublions pas que la tradition juive appelle pour cette raison les rouleaux bibliques
« miqra’ », ce qui veut dire la lecture (à haute voix), ou encore plus littéralement
l’appel, car « miqra’ » a pour racine « qara’ » qui signifie appeler50. Ce mot juif est
spécialement bien choisi : il s’agit en effet d’un appel de Dieu, qui pour cette raison est
toujours lu à haute voix, comme c’est toujours l’usage dans les Eglises orientales pour
la lecture de l’Ecriture. La Bible est en premier lieu un appel à entendre.

N’oublions pas non plus que l’Ecriture est caractérisée par une profonde simplicité et
qu’elle s’adresse à nous d’une façon directe. Dans une interview, le cardinal Martini
exprime cela d’une manière désarmante :
51
« L’Evangile est très simple, et il a un langage immédiat » .
Naturellement, Carlo Martini était suffisamment exégète pour savoir que la
simplicité et le caractère direct de l’évangile ne tombent pas du ciel comme la manne.
Dès qu’il arriva à Milan il commença avec zèle à rendre la Bible plus proche de gens
d’âges et de milieux différents. Sous son impulsion, des groupes bibliques se
développèrent, on consacra le soin nécessaire à la formation de lecteurs et de catéchistes
et on débuta une série presque infinie de méditations bibliques. Souvent, il prit lui-
même la parole à ces occasions, pas seulement dans le duomo de Milan, mais partout
dans la diocèse et très vite en beaucoup d’endroits d’Europe et d’ailleurs.

En soi cette large approche biblique à Milan n’était pas spécifiquement orientée vers
la jeunesse, mais elle parut exercer une emprise particulière sur celle-ci. Quand on
demanda à Martini si l’Eglise ne devait pas se concentrer d’une manière plus prononcée
sur les jeunes, il répondit d’une façon très suggestive :

« Je ne parlerais pas d’une pastorale des jeunes. Il s’agit avant tout de confiance
dans la force de la parole de Dieu. Cette parole a un pouvoir particulier sur les
jeunes, parce qu’ils sont très ouverts à ce qui est neuf, vrai et simple. Mais, pour
être franc, je me préoccupe assez peu des tranches d’âge. Je n’ai jamais posé
comme principe de m’occuper en priorité des jeunes. Des gens cherchent, et le
principe, c’est d’annoncer la parole de Dieu à tous et de faire comprendre que cette
parole peut dire beaucoup à chacun, qu’elle peut révéler chacun à soi-même. Sur
cette base, j’ai rencontré des jeunes et j’ai vu que beaucoup écoutaient. Il n’a
jamais été à mon programme de commencer par eux. Mais comme, dès mon
arrivée ici, ils m’ont demandé de les aider à prier avec la Bible, j’ai essayé de le
faire et j’ai constaté qu’ils répondaient de plus en plus. Ce sont eux qui sont venus
à ma rencontre. Ils ont cherché à avoir une parole sérieuse à laquelle se confronter,

50
Cf. C.J. LUBUSCHANGE, Qara’ – rufen, in : E. JENNI – C. WESTERMANN, Theologisches
Wörterbuch zum Alten Testament, München – Zürich, Kaiser – Theologischer Verlag, 1984, Dl. 2, 666-
674, surtout 672, et : E. BIANCHI, Ecoute, in : IDEM, Les mots de la vie intérieure. Traduit de l’italien
par M. WIRZ (Epiphanie), Paris, Cerf, 2001, 61.
51
C.M. MARTINI, A l’écoute du coeur. Entretiens avec Alain Elkann. Préface de G. ZIZOLA. Traduit de
l’italien par A. LAURE (Spiritualités), Paris, Albin Michel, 1995, 105.

51
et j’ai été témoin qu’elle leur parle comme à moi. Si j’essaie de revivre avec eux ce
qu’elle me fait découvrir, ils ont la même réaction. »52

Voyez comme ils s’aiment


Pour que la liturgie et la catéchèse soient véridiques, il faut qu'elles cadrent dans un
ensemble plus vaste. La célébration et la Bible ne peuvent exister en soi. Elles ont
besoin d’une vie selon l'évangile. Comment pourrions-nous espérer que Dieu nous
touche, qu'Il veuille venir parmi nous, si tout cela ne porte pas plus loin que de belles
paroles et des gestes émouvants ? Dieu est sincère lorsqu’Il veut être parmi nous. Il
souhaite partager entièrement la vie avec nous; son souhait le plus profond consiste en
ce que Ses projets soient également les nôtres. Il Lui importe que nos actes soient de
plus en plus marqués du sceau de ses projets à notre égard.

Pour cela, il nous faut des communautés concrètes, où la vie chrétienne est visible et
tangible. Ces communautés sont marquées par la solidarité et l'amitié. C'est en
particulier cette solidarité que les jeunes apprécient. La foi n'est en effet pas une
doctrine théorique, mais une façon de vivre marquée par la rencontre avec le Seigneur.
Ça touche l’existence humaine avec ses plaies et soucis pour apporter guérison et
consolation.

Ce sont surtout les initiatives réalisables à petite échelle qui semblent ici les plus
prometteuses. Un petit groupe de scolarisation des enfants immigrés apprend aux jeunes
la joie de la fraternité et de l’engagement et en même temps que la découverte d’une
autre culture. Une visite aux personnes âgées ou handicapées ou même une veillée de
Noël avec des sans-abri sont des formes simples de rencontre qui concrétisent la foi.
Sans tomber dans une moralisation exigeante, le but est que les jeunes viennent chez
eux dans une communauté qui reflète concrètement l’amour de Dieu pour les hommes.
Une simple chorale paroissiale de jeunes peut être d’un grand service aux jeunes en
recherche, car elle est un refuge dans leur adolescence et leur permet à côté des chants
religieux d’apprendre à aimer la beauté de la foi.

Une Eglise missionnaire doit pour cela être transparente pour Celui qui est présent en
elle. Avant d'organiser toute sorte d'activités pour les jeunes, il est bien plus essentiel
que nos communautés d'Eglise soient à nouveau conscientes de leur vocation. Et
certainement les jeunes qui ont un sixième sens d' authenticité et de radicalisme, nous
posent de profondes exigences. Ils ne trouveront de l'aide qu'à partir du moment ou ils
découvriront des communautés et des paroisses dont on peut dire: "Viens et vois" (Jn
1,46).

52
H. MADELIN, Aujourd’hui, le Souffle de l’Esprit. Entretien avec le Cardinal Martini, in : Etudes
n°3885 (1998) 645-646.

52
Migrations : défis culturels et pastoraux

Sœur Marianne Goffoël53

Une société multiculturelle et interconvictionnelle


J’habite la plus petite commune de Bruxelles et la plus dense. 140 nationalités s’y
côtoient. Parmi ceux-ci il y a des chrétiens venus d’ailleurs. C’est une chance pour
l’Eglise car ils dynamisent nos célébrations. La présence des « autrement croyants » est
aussi une chance pour l’Église.
En ce qui concerne tous ces citoyens d’origines diverses, il y a un dénominateur
commun : nous sommes tous minoritaires. Les chrétiens sont une minorités parmi les
autres et cela appelle à un peu d’humilité.
Que faire pour éviter au maximum les tensions culturelles, religieuses ?
Plusieurs attitudes sont possibles : l’on peut être intolérant, c’est le rejet de l’autre et
le repli sur soi. L’on peut être indifférent : on vit dans sa bulle et on s’enferme, ce n’est
guère mieux. L’on peut tolérer l’autre (avec ce que ce mot peut dégager de positif et de
négatif) : ce peut être le début d’une ouverture. L’on peut surtout dialoguer, et là
commence un chemin positif dans la voie de l’Évangile.
Il faut être « séduits par Dieu, fascinés par l’Évangile » pour oser aller vers l’autre.
Oui, c’est l’Évangile qui me séduit et me donne ce désir non pas de tolérer les autres,
mais d’entrer en dialogue et finalement, d’être admirative de la foi de l’autre ou du
chemin qu’il parcourt….

Parmi les migrants…. un grand nombre de musulmans


Après mon retour d’Irak en 1983, le vicariat de Bruxelles m’a demandé de travailler
au Centre El Kalima. Ce Centre est orienté vers le dialogue avec les musulmans, il est
outillé pour cela. Quant à ses activités, elles tiennent compte de la mutation de notre
société vers le multiculturel et le multireligieux, ou plutôt l’interconvictionnel. Nous ne
pouvons en effet ignorer le reste de la société.

Aujourd’hui l’islam fait peur


La couverture du vif/l’express titrait en juin 2008 : « Comment l’islam menace
l’école ». À l’intérieur de l’article on pouvait même lire : « Comment l’islam gangrène
l’école ». Il aurait été plus juste de dire : « l’islamisme menace l’école… ».

53
Sœur Marianne Goffaël, religieuse dominicaine, est responsable du Centre El Kalima, à Bruxelles.

53
Comme le disait un jour, un organe de presse (Zenit) : « Le monde des mass media
est conditionné par une certaine fascination du mal, par une règle cynique selon laquelle
la mauvaise nouvelle est une bonne nouvelle. Les journaux accordent peu de place aux
belles histoires, aux témoignages qui redonnent envie de vivre et d’espérer ». Par
exemple, que des musulmans écossais proposent de protéger la synagogue à Edimbourg
après un acte de vandalisme, on n’en trouve nulle trace dans les médias ! Nous sommes
tous d’accord avec cela et cependant nous aussi, nous nous laissons influencer même
parfois à notre insu. Pourquoi donc cette confusion, cette peur ?
Il y a d’une part les évènements internationaux, comme l’avènement de Khomeyni
dans les années 80, le 11 septembre, le meurtre de Van Gogh, les caricatures, etc.
Toutes ces images – même parfois tronquées – véhiculées à travers les médias ont
entraîné l’assimilation de l’islam à l’intégrisme.
Il y a aussi, au niveau national, les débats sur le foulard, l’érection de nouveaux lieux
de culte, et d’autres revendications culturelles qui créent des tensions. La peur
grandissante de l’Islam ne se manifeste pas seulement dans des sentiments négatifs mais
ont des répercussions très concrètes sur les musulmans. Celles-ci se manifestent d’une
manière particulièrement sensible dans le secteur de l’embauche, ou encore dans la
manière dont est traitée la question des mosquées. Les lieux de prières sont établis dans
d’anciens bâtiments industriels ou commerciaux, dans des logements privés. Ces lieux
ne satisfont pas les musulmans. Ils ont des projets d’aménagement ou de construction et
il n’est pas rare que des politiciens les bloquent en avançant des prétextes non fondés.
Les musulmans éprouvent alors un sentiment de discrimination et de suspicion à leur
encontre.
Il y a plusieurs raisons à cette discrimination. Elles peuvent être d’ordre symbolique :
elles touchent à la visibilité de l’islam dans l’espace public. Les revendications de
musulmans nous dérangent, nous inquiètent et se bousculent dans les esprits. D’où des
questions comme : L’islam est-il compatible avec la modernité ? La violence est-elle
inscrite dans la nature de la religion islamique ?
S’il est légitime que de telles questions émergent dans un contexte en pleine
mutation, l’attention parfois obsessionnelle sur ces changements, ne permet pas de voir
la profondeur du travail qui se fait à côté de cela. Universitaires, militants associatifs
ou conférenciers réfléchissent sur le devenir de l’islam en Europe.
J’aimerais citer ici le prof. Dassetto, sociologue compétent dans les questions de
l’islam : « L’islam n’est pas une menace, l’islam est bon si on le fait devenir bon,
l’islam est mauvais si on le fait devenir mauvais. L’islam est ce qu’en font les
croyants ». Et j’ajouterais, il est ce qu’en fait son entourage aussi, c’est-à-dire, nous ! Si
nous renvoyons sans cesse aux musulmans une image négative d’eux-mêmes, nous les
poussons tout simplement au repli, au fondamentalisme. C’est une réaction
psychologique normale. Dans ce même ordre d’idées, je me rappelle ce que disait Tariq
Ramadan : à force d’employer le mot jihad en le traduisant par « guerre sainte », vous
inculquez, malgré vous, un certain comportement auprès des jeunes. Or, jihad est avant
tout un effort sur soi pour mieux se comporter en tant que musulman.
Il y a donc lieu de se méfier d’une confusion entre islam et intégrisme, confusion
souvent entretenue par les médias. Tous les musulmans – loin de là – ne sont pas des
intégristes, des extrémistes, voire des terroristes ! Le Cardinal Tauran, président du
Conseil pontifical pour le dialogue interreligieux, disait : « Il ne faut pas avoir peur de

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l’Islam parce que ce que nous rencontrons n’est pas un système religieux, mais des
hommes et des femmes qui partagent avec nous le même destin, comme ‘’compagnons
d’humanité’’ ».

Qui sont donc ces hommes et ces femmes que nous rencontrons ?
L’islam ne se présente pas comme un bloc monolithique, invariable. On est déjà
familiarisé avec certaines différences, comme les différences ethniques : En Belgique, il
y a 430 000 musulmans. Parmi ceux-ci, 2/3 sont marocains, 1/3 sont turcs. Il faut y
ajouter d’autres minorités, comme les algériens, les tunisiens, les albanais, les
pakistanais et ceux d’Afrique noir, les convertis à l’islam. L’islam s’est greffé sur des
peuples différents et donc sur des cultures diverses qui donnent à leur islam une
coloration propre. Les musulmans ne sont pas tous arabes, ni d’ailleurs tous les arabes
ne sont des musulmans. De plus, à l’intérieur d’un groupe de même origine, on trouve
divers courants politiques, spirituels, mystiques…
Il y a aussi au sein de l’islam des ramifications. Dès l’origine de l’islam, celui-ci s’est
diversifié en sunnites, chiites et même kharédjites. Cette diversification a eu lieu autour
de la succession du prophète Muhammad.
L’islam se décline encore en quatre écoles juridiques, nées dans des sphères
géographiques diverses. Ainsi les turcs, par exemple, relèvent de l’école juridique
hanéfite et les marocains de l’école malékite. Comme ces écoles ont fixé le droit, on
trouvera des variantes d’une école à l’autre suivant l’importance donnée, par exemple,
au jugement personnel.
Mais il y a d’autres différences qui relèvent du lien qu’entretient chaque croyant avec
sa foi – et on retrouve cela dans toutes les religions. Il y a plusieurs manières de vivre
l’islam et surtout plusieurs manières de comprendre et d’interpréter les réalités
fondatrices : il y a des croyants pratiquants chez qui la religion occupe une place
centrale dans la vie quotidienne. Ils sont engagés socialement et tentent de dépasser
l’expression traditionnelle et les pratiques parfois superstitieuses de l’islam populaire de
leurs parents. Ils sont musulmans par choix. Il y a des pratiquants engagés dans des
formes organisées ou militantes de l’islam, aussi de diverses tendances. Il y a les
groupes de tendance soufie. Il y a des croyants plus ou moins sécularisés avec une
pratique privatisée peu ou pas régulière. Il y a enfin des non-pratiquants, des non-
croyants sécularisés pour qui l’islam est d’abord une référence civilisationnelle.
Ce n’est qu’un très bref aperçu non exhaustif. Toutes ces démarches ne peuvent être
classées en modérées ou en radicales, en bonnes ou mauvaises voies.

La communauté musulmane est – aussi – en constante évolution


On peut dire que dans l’ensemble, les musulmans ont réinventé progressivement une
manière d’être musulman étant donné qu’ils sont dans un autre contexte. Et là, « se dire
reste vital. La culture, la mémoire, l’imaginaire, l’esthétique, la norme, la citoyenneté,
l’interreligieux, la spiritualité sont autant de pistes ouvertes à la réflexion », nous dit
Farid El Asri, doctorant à Louvain-la-Neuve.
« L’islam chemine, change, se construit dans les débats, par essais et erreurs. A
l’encontre de l’image monolithique et figée de l’islam souvent véhiculée, il importe de
prendre en compte ces multiples pulsations, de saisir les tendances qui voient le jour.

55
Cela suppose une connaissance de l’intérieur qui ne soit pas celle de clichés et qui ne se
braque par sur des épiphénomènes (phénomène qui vient s’ajouter à un autre sans le
modifier), l’écume, qui restitue mal le devenir des grands courants », dit encore El Asri.
Mgr Teissier, de passage à Bruxelles il y a déjà quelques années alors que l’on
percevait de plus en plus la montée du fondamentalisme en Algérie, disait : « Je crois à
l’évolution des consciences –même s’il s’agit ici de cas extrêmes ». Un artisan
musulman de la non-violence, Jawdat Saïd, allait dans le même sens. Il loua tout ce que
l’Europe a construit, comme la Communauté européenne en rappelant qu’il y a 400 ans,
on brûlait des gens sur les bûchers ! Il faut donc donner la possibilité d’évoluer.
Continuer à diaboliser l’islam empêche les musulmans d’évoluer sérieusement.
Continuer à percevoir l’islam de façon simplificatrice, empêche de connaître tous les
progrès réalisés en matière d’adaptation. La création d’associations a permis et permet
des remises en cause profondes, y compris l’élaboration d’un cadre de référence
théologico-juridique plus clair, formulé par des ulémas, obligés de tenir compte du
contexte européen. Les jeunes musulmans posent des questions qui appellent des
réponses explicites. Tous ces facteurs ouvrent une porte, même étroite encore, vers un
avenir de respect mutuel.

Dialogue
Tous les musulmans ne sont pas des extrémistes – loin de là – et si extrémisme il y a,
il ne s’agit pas de répondre par une même attitude. L’extrémisme engendre une spirale
extrémiste. Chacun y va de sa surenchère, aussi parce que chacun fait de la réponse à
l’extrémisme un enjeu pour sa propre identité. Nous aussi, de notre côté, nous devons
être prêts à faire face à des évolutions profondes dans nos systèmes de pensée. Nous
avons peine à entrevoir comment vont se faire ces changements. Nous devrons être
patients les uns vis-à-vis des autres dans ce domaine. Il est donc essentiel de cheminer
ensemble.
Il y a cependant un facteur important qui pourrait y aider c’est celui de la formation
et du dialogue. Il faudrait davantage de lieux de formation. Les jeunes sont parfois trop
influencés par des mouvements venant de l’étranger sans aucune référence à la société
dans laquelle ils vivent. Les musulmans en Belgique (en Europe) posent leurs questions
via internet à quelqu’un qui donne ses réponses, à partir du Qatar ! Donc hors contexte.
Il faut des leaders ici en Belgique.
Il faut aussi proposer aux musulmans des lieux de libres paroles. Les musulmans
n’ont pas de tribune en dehors de leur milieu où exposer leurs pensées. Que pouvons-
nous faire, à notre niveau ?

Promouvoir le dialogue !
Bien sûr, le monde musulman doit évoluer de l’intérieur – processus déjà en marche.
Comme pour toutes les religions, c’est aux membres de celles-ci de prendre en main
leur destinée. Mais de l’extérieur, les chrétiens peuvent contribuer à cette évolution.
Dassetto (non croyant) : « Les musulmans ont besoin de vous, et les sociétés plurielles
qui sont les nôtres ont besoin de votre action positive ». Il faut dialoguer ou plutôt, pour
reprendre un terme coranique : s’entreconnaître. Quand on ne se connaît pas, on a peur.

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Il faut apprendre à s’apprivoiser. Nous sommes donc devant ce défi : soit on se referme
dans sa bulle, soit, à partir de son identité propre on s’ouvre aux autres.

Respect, confiance et hospitalité


Pour entamer le dialogue, il convient d’adopter quelques attitudes. Un des textes
conciliaires (Nostra Aetate notemment), avant d’employer le mot « dialogue », nous
exhorte à « regarder avec estime », avoir ce regard d’estime, c’est l’attitude
essentielle pour entrer dans l’univers de l’autre. Le dialogue c’est une attitude de cœur.
Pierre Claverie, qui était évêque d’Oran, en rappelant sa jeunesse de « pied noir »
(français qui vivait en Algérie), disait que dans cette première tranche de sa vie, il vivait
à côté de l’autre en l’ignorant. Il lui a fallu une conversion du cœur pour « voir ceux qui
lui étaient proches ».

Un musulman, Soheib Bencheikh écrivait : « frère chrétien, quand tu pries, quand tu


jeûnes, rappelle-toi qu’il y a juste à côté un musulman qui s’adresse avec le jeûne et la
prière à la même Divinité, à la même Seigneurie ». Le musulman est d’abord un homme
de prière, on l’oublie très souvent. Nous devons le respecter surtout dans sa spécificité.

Pour cela, il est important de se poser la question du sens des mots. On emploie les
mêmes mots mais ils ne signifient pas la même chose. En arabe, il est fréquent que le
vocabulaire chrétien soit différent du vocabulaire musulman. Lorsque le contexte
linguistique, ethnique est différent, nous risquons de croire que l’autre comprend, alors
qu’il ne comprend rien ou autre chose. « Il faut réapprendre à parler, il faut réapprendre
des mots communs ». Essayer de comprendre l’autre demande toute une réadaptation de
l’esprit, une certaine gymnastique. On ne lit pas le Coran ou la Bible avec les mêmes
clefs. Il faut se laisser « dé-ranger » au sens étymologique du mot, il faut émigrer. Un
des lieux où il faudrait réfléchir c’est celui de la théologie. On ne forme pas des
chrétiens en ignorant le contexte. On parle souvent d’adapter le langage théologique à la
modernité, on devrait le faire également par rapport à la présence d’autrement croyants.

Un autre élément important dans le dialogue c’est accepter d’écouter l’autre


s’exprimer sur sa foi en parlant de lui-même.Le chrétien ne doit pas être perçu à partir
de ce qu’en dit le Coran, le musulman n’est pas un chrétien qui s’ignore, pas de
récupération de part et d’autre. Ne pas disséquer en parties chrétiennes et non
chrétiennes, comme si l’islam n’était pas un ensemble cohérent ; ou selon ses
formulations classiques sans tenir compte de positions récentes (dans le christianisme).

Faire confiance est un maître-mot. Le Père de Béthune parle volontiers d’hospitalité.


Nous avons besoin à la fois d’accueillir et d’être accueilli. C’est le chemin privilégié de
l’Evangile. Le défi d’aujourd’hui c’est la capacité que l’on aura à accueillir
positivement les autres. Les bonnes volontés peuvent être un instrument pour aller à
l’encontre de l’intolérance. Nous devons être une force positive.

But du dialogue
Certaines personnes quand elles pensent « dialogue » pensent à la nécessité d’arriver
à un même consensus théologique. Et cela, bien sûr, c’est impensable, on ne peut
concilier l’inconciliable. Nous ne dialoguons pas pour cela. Bien sûr on aime relever ce
qui nous unit, et c’est nécessaire mais il faut aller plus loin. Il faut dialoguer non pas au-

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delà de nos différences mais avec elles, comme disait Pierre Claverie. Il ne faut pas en
avoir peur, pas même des contradictions. Finalement, c’est ce qui nous dépasse qui nous
unit. Christian de Chergé portait en lui cette énigme de la différence comme une
« lancinante curiosité ». Il lui tardait de pouvoir poser à Dieu cette question : « quel est
le sens divin de ce qui humainement nous sépare ? » Cela signifie qu’il n’y aurait pas de
sens divin seulement dans ce qui nous unit. Il y a aussi un sens divin dans ce qui nous
sépare.

Le dialogue ainsi compris permet de mieux se connaître et d’éviter les peurs. Ce


faisant, on construit la paix – et le pape se place à ce niveau.

Quel avenir pour un christianisme appelé à la rencontre avec


l’Islam?
En osant le « Dialogue », on se donne mutuellement une identité, tout en sachant que
le respect n’est pas adhésion. Cela demande beaucoup de liberté intérieure, spirituelle.
Les lieux de dialogues sont des lieux où on ne nie pas les identités religieuses, mais où
elle se définissent les unes par rapport aux autres, où elles prennent leur place. Le
risque serait de se définir identitairement différents. Cela entraîne le repli, avec toutes
ses conséquences.

C’est au miroir de l’islam que le chrétien cerne mieux sa foi, c’est au miroir du
christianisme que le musulman cerne mieux la sienne. Ce dialogue-là est une chance
pour la foi des uns et des autres, c’est une « grâce car il nous oblige à approfondir
notre propre foi (Cardinal Tauran), à ne pas regarder l’autre comme un concurrent mais
comme quelqu’un qui cherche Dieu et l’Absolu, à témoigner que l’homme ne vit pas
seulement de pain…à rester ouvert aux valeurs communes pour le bien de l’humanité et
pour bâtir une fraternité universelle »

J’irais encore plus loin : je dialogue parce que « j’ai besoin de la foi des autres » pour
employer l’expression de Pierre Claverie. Je dialogue parce que j’ai à apprendre des
autres sur ce chemin vers Dieu. Je dois accepter que l’autre peut détenir une part de
vérité qui me manque. Jean Lacroix : « dialoguer ne saurait être ni réfuter la pensée
d’autrui ni simplement l’intégrer à la sienne propre, mais se mettre en question soi-
même pour progresser au contact de l’autre ou accepter la perspective d’aller plus
loin… »

Pour avancer sur le chemin du dialogue, revenons à l’Evangile. Soyons, comme


Jésus, admiratif de la foi de l’autre. Rappelez-vous la foi de la Samaritaine (Jn, 4) qui
est surprise de voir le Seigneur s’adresser à elle. Et il s’exprime en disant que l’on peut
rejoindre Dieu, en dehors du Mont Garizim et du Temple de Jérusalem. Rappelez-vous
le centurion romain à Capharnaüm. Jésus n’hésite pas à souligner ici la foi d’un croyant
qui n’est pas juif et à dire que beaucoup d’autres comme lui auront part au festin du
Royaume (Mt 8,11).

Comme Jésus, regardons et aimons notre prochain au-delà des frontières de notre
Eglise. Nous disons tous les jours dans le Notre Père : « Que ton Règne vienne ». Nous
avons tous ensemble à croître spirituellement dans un Royaume à bâtir, auquel nous

58
convoquent nos Ecritures, selon les moyens que Dieu nous donne mais aussi sous
l’action de son Esprit qui poursuit son action auprès de n’importe quelle personne quelle
que soit sa culture ou sa religion.

Un lieu qui peut aussi nous y aider, c’est celui de la prière. Je cite Pierre Claverie :
« Nous ne sommes pas des groupes religieux séparés ; nous sommes d’abord tous
ensemble devant Dieu et cela même nous met en rapport les uns avec les autres ».

Nous ne sommes pas les seuls à penser que nous avons besoin de la foi des autres :
L’émir Abd-el-Kader, un mystique qui a lutté pour l’indépendance de l’Algérie, mort en
1883, a dit cette phrase merveilleuse : « Si tu penses et crois que Dieu est ce que tu
professes et (ce que) croient toutes les écoles de l’islam, sache que Dieu est cela et qu’il
est autre que cela ! Si tu penses et crois ce que croient les diverses communautés,
musulmans, chrétiens, juifs, mazdéens, polythéistes et autres, sache que Dieu est tout
cela et qu’il est autre que cela…. »

59
Transmettre la foi : nos ressources aujourd’hui ?

Paul Scolas54

Je ne ferai pas un inventaire de nos ressources pour transmettre la foi. Ces ressources
sont nombreuses et diverses à souhait : dispositif catéchétique, pastorale sacramentelle,
enseignement, mouvements de jeunesse, œuvres caritatives et sociales… Et pourtant les
ressources pour transmettre la foi manquent. Beaucoup d’entre elles s’effondrent
d’ailleurs sans qu’on puisse voir quand cet effondrement va s’arrêter. C’est surtout le
cas en Europe occidentale, mais je crois que tout le christianisme et surtout le
catholicisme finira par être profondément secoué par l’une ou l’autre forme de choc de
la modernité.

L’impression qui prévaut dans les Eglises et chez les chrétiens que je connais, c’est
qu’en ce qui concerne la transmission de la foi, nous sommes singulièrement dépouillés.
Dans un tel contexte d’effondrement et de crise (au sens de mise en question), on est
acculé à redécouvrir ses ressources essentielles, un trésor que ni les mites, ni la rouille
ne peuvent altérer. C’est bien ainsi que l’aventure de la transmission de la foi a
commencé. Lorsque Pierre et Jean sont interpellés par un paralytique qui leur demande
l’aumône, Pierre a cette réponse dans laquelle tout est dit : « ‘De l’or ou de l’argent, je
n’en ai pas ; mais ce que j’ai, je te le donne : au nom de Jésus Christ, le Nazaréen,
marche !’ Et, le prenant par la main droite, il le fit se lever. » (Ac 3, 6 7). Et ce que
Pierre donne au mendiant boiteux, c’est ce qu’il a lui-même reçu. Sa foi a basculé aux
jours de la Passion et il a été relevé par le regard aimant de Jésus. Et c’est cela même
qui le rend capable de transmettre la foi en la vie donnée au-delà de tout, à celui qui est,
comme il l’a été, cloué au sol. C’est la foi reçue qui lui permet d’affermir son frère dans
cette foi.

Notre ressource, c’est l’Evangile lui-même, l’Evangile comme tel, comme annonce
d’une résurrection. Je pourrais m’en tenir là et, d’une certaine façon, il nous faut nous
en tenir là. Mais je voudrais aussi regarder la culture d’aujourd’hui - facilement
considérée comme un obstacle - comme une vraie ressource pour transmettre la foi.
Enfin, je crois que la longue histoire du christianisme avec ses nombreux méandres peut
aussi être appréhendée comme une ressource.

« L’Evangile que je vous ai annoncé. » (1Cor 15, 1)


C’est ainsi que Paul introduit auprès des Corinthiens sa confession de la mort et de la
résurrection du Christ. Et aux Galates, il dira, et avec quelle force, qu’il n’y a pas

54
Prêtre du diocèse de Tournai, professeur invité à la Faculté de théologie de l’UCL.

60
d’autre Evangile, d’autre Bonne Nouvelle. Et c’est à propos de cet Evangile qu’il
déclare : « Je vous ai transmis ce que j’ai moi-même reçu » (1Cor 15, 3). L’Evangile est
la ressource par excellence, la seule d’ailleurs en définitive parce qu’il est d’une
puissante et toute neuve actualité pour la vie des humains aujourd’hui. Il est aussi la
ressource par excellence pour penser la transmission parce qu’en lui-même il est
communication et il nous manifeste ce que c’est que de transmettre la foi et la vie.

Qu’est-ce que l’Evangile comme Evangile ? Pas un livre, une doctrine, une morale
ni même une religion. Mais un homme profondément relié à Dieu et rempli de son
Esprit qui passe en éveillant et en réveillant des femmes et des hommes à la vie alors
que, d’une manière ou d’une autre, ils sont marqués par la mort. C’est cette foi-là que
Jésus transmet à Nicodème, à la femme surprise en adultère, à Pierre, aux possédés des
esprits mauvais, aux lépreux et à tant d’autres. En regardant celles et ceux qu’il
rencontre comme des êtres aimés de Dieu sans condition, il éveille et réveille en eux la
confiance en la vie. La vie est un don gratuit qui ne peut manquer même si la mort et le
Mal la défigurent et conduisent à en douter. C’est cela qui se livre à la croix dans le
corps livré de Jésus. Là, quelque chose d’inouï s’effectue et s’inscrit dans notre histoire
qui révèle la capacité de la grâce créatrice à affronter et traverser le Mal (le péché) et la
mort. En Jésus, Dieu est descendu jusque là une fois pour toutes pour ouvrir là, au lieu
même de la perdition, un chemin de salut. Transmettre la foi, c’est avant tout
transmettre cette confiance-là : le Dieu qui nous a créés à son image et à sa
ressemblance, nous recrée au-delà de tout dans le don que le Christ Jésus fait de sa vie.
C’est de cet événement que naît l’Eglise et c’est ce qu’il lui est donné de transmettre en
en étant signe, sacrement, au milieu du monde. Pour l’Eglise, pour chacun et chacune
d’entre nous en elle, c’est cela en son fond transmettre la foi à la suite et à la manière de
Jésus.

Cet Evangile est en lui-même communication et transmission. En un sens, il n’est


que cela. Et Jésus est tout entier et profondément quelqu’un qui communique, transmet,
fait passer quelque chose, cette foi dont je viens de parler. Il nous faut dès lors regarder
comment Jésus est Evangile, Bonne Nouvelle pour ceux qu’il croise et qu’il touche,
comment il communique et transmet. C’est toujours dans une rencontre qu’il
communique, une rencontre centrée sur l’autre tel qu’il est, une rencontre dans laquelle
il donne toute la place à l’autre sans le juger : la manière dont Jésus regarde Zachée ou
la femme adultère et leur parle est exemplaire à cet égard. Dans ces rencontres, Jésus
parle avec autorité et clarté, il dit Je et pourtant, dans le même mouvement, il ne
s’impose pas, il ne s’annonce pas lui-même. D’une part, il est tout entier relié au Père :
il transmet ce qu’il a reçu lui-même du Père : être Fils (Que l’amour dont tu m’as aimé
soit en eux) ; en même temps, il est tout entier tourné vers le bien, vers le salut de celui
ou celle qu’il rencontre. Il est très significatif que Jésus dise à ceux qui sont relevés à
son contact : ‘Ta foi t’a sauvé’ et jamais : ‘Je t’ai sauvé’. Jésus suscite la foi d’abord en
reconnaissant la foi qui existe déjà chez l’autre. Jésus est un passeur de foi et, de plus, il
est passeur en passant, il ne s’approprie pas ceux qu’il éveille, il ne les embrigade pas, il
ouvre leur liberté et les laisse à leur liberté. Aujourd’hui comme aux jours de Jésus, là
où se vivent de telles rencontres, la foi peut se communiquer et elle se communique.
Mais n’avons-nous pas parfois peur de transmettre comme Jésus transmet ?

61
Une culture du sujet et de la liberté
Ce que je viens de dire sur la manière dont Jésus s’adresse à la liberté conduit tout
naturellement à ce deuxième point, cette deuxième ressource. Pourtant, ce n’est pas
toujours si naturel que cela, loin s’en faut : le sujet et sa liberté sont facilement
considérés avec méfiance par ceux qui désirent transmettre la foi qui les anime.

C’est qu’il y a une longue et lourde histoire de méfiance réciproque entre le


christianisme, et spécialement l’Eglise catholique, et la culture moderne qui met au
centre le sujet et la liberté. Vatican II marque un heureux et décisif tournant dans la
manière de regarder le monde moderne. N’empêche qu’il reste quelque chose de cette
histoire à la fois dans les mentalités et dans certaines attitudes de l’Eglise. La foi
chrétienne demeure largement perçue comme portant atteinte à la liberté tandis qu’une
dénonciation quasi systématique du relativisme de notre époque empêche d’en voir les
richesses et les possibilités et surtout de lui parler.

Notre culture moderne qui met l’homme libre en son centre doit pourtant beaucoup
au christianisme. C’est du reste l’ensemble de la tradition biblique qui véhicule une très
haute idée de l’homme, celle que Dieu lui-même a de l’homme. Tout le regard sur
l’humain est orienté par le premier récit de la Genèse : Dieu crée l’homme et la femme à
son image et à sa ressemblance et Il vit que cela était très bon. Et il leur soumet ce qu’il
a créé, comme le chante admirablement le Psaume 8 : « Qu’est donc l’homme pour que
tu penses à lui ?... Tu en as presque fait un dieu, tu le couronnes de gloire et d’éclat, tu
le fais régner sur les œuvres de tes mains. ». Et cela culmine dans l’audace de la foi à
reconnaître en cet homme Jésus, le Fils unique de Dieu, Dieu né de Dieu. Et ainsi de
reconnaître que Dieu s’est fait homme pour que l’homme devienne Dieu, diront les
Pères de l’Eglise. Dans l’émergence de la science moderne puis des libertés modernes,
cette conception judéo-chrétienne de l’homme et de son rapport à Dieu et aussi au
monde, a joué un rôle décisif. De nombreux analystes de la culture occidentale moderne
le reconnaissent du reste. Même si, concrètement et de façon dramatique, ces conquêtes
de la liberté se sont trouvées en conflit avec le christianisme historique. Nous ne
pouvons pas annoncer et transmettre la foi aux hommes et aux femmes de notre temps si
nous ne portons pas en nous cette haute estime de la destinée des humains. Trop
souvent, on essaye de greffer la proposition chrétienne sur les failles – qui sont réelles et
sur lesquelles je reviendrai tout de suite - alors qu’elle est d’abord confiance en
l’homme et ouverture d’une immense et magnifique destinée de participation à la vie
même de Dieu. L’humanisme qui fait confiance en l’homme et en sa liberté n’est pas un
obstacle à la foi. Il est dramatique de le laisser penser parfois ; vouloir transmettre la foi
implique de manifester qu’elle est un authentique humanisme.

N’empêche que l’aventure moderne de la liberté comporte aussi des faiblesses et non
des moindres. La liberté est affrontée aujourd’hui à de profondes questions et elle en
vient à douter d’elle-même. La tentation d’identifier la liberté à la consommation de
l’immédiat, le peu de chemins qui aident à intégrer l’échec, la souffrance, la mort dans
une existence humaine, la difficulté à engager sa liberté dans un choix… conduisent
facilement au désenchantement. Le nombre de personnes qui doutent, pas seulement des
vérités de foi, mais de la valeur de la vie et de leur vie est impressionnant pour une
culture construite sur l’exaltation de l’humain.

62
C’est au cœur de ces questions qui sont de véritables questions existentielles et non
simplement des questions théoriques, qu’il s’agit de vivre et de communiquer la foi en
l’Evangile de Jésus Christ. Par rapport à la quête de liberté des humains, l’Evangile est
une ouverture inouïe. Non seulement, il signifie que nos vies ne sont pas condamnées,
mais il les ouvre à un immense avenir. L’Evangile est aussi critique en ce qu’il désigne
les impasses possibles et réels. Mais cette critique ne peut être portée que par une
bienveillance foncière pour la quête de liberté et de vie des humains. Cela touche, à mes
yeux, à une condition essentielle de la transmission. Telle est bien la tonalité de
l’ensemble du Concile de Vatican II et, en particulier, de sa Constitution pastorale
Gaudium et spes qui déclare d’entrée de jeu : « La communauté des chrétiens se
reconnaît réellement et intimement solidaire du genre humain et de son histoire » (n°1)
et dont la première partie présente et développe une vision théologique particulièrement
profonde et solide de la dignité et de la destinée de la personne humaine.

Notre histoire comme ressource


L’Evangile se raconte. Il est bien sûr une Parole qui éveille à la foi et à la vie, mais
cette Parole est une Parole faite chair. C’est dès lors le récit de l’existence terrestre de
Jésus, la Parole faite chair, l’Evangile de Dieu, et singulièrement le récit de sa
scandaleuse mort en croix, puis celui de la foi en lui, désormais ressuscité, des premiers
et à leur suite de tant d’autres, que l’on raconte pour inviter à croire. Pour que des
hommes et des femmes d’aujourd’hui fassent la rencontre de cet éveilleur exceptionnel
et unique qu’est Jésus de la part de Dieu, il faut qu’ils soient mis en contact, d’une
manière ou d’une autre, avec cette histoire. Il faut que quelqu’un leur raconte qui est ce
Jésus et comment, depuis vingt siècles, des gens qui sont ses disciples et qui forment
l’Eglise ont accueilli et transmis sa Bonne Nouvelle. De tels récits ne manquent pas et
pourtant…ils manquent puisque, constate-t-on, beaucoup ne savent plus rien de cette
histoire.

Je voudrais cependant prendre d’abord en considération positive la surabondance des


traces de l’histoire du christianisme dans notre culture. C’est un fait, plein d’ambiguïtés
certes, mais c’est un fait. La transmission de la foi chrétienne ne se vit pas en terrain
vierge ; chez nous, chacun et chacune a quelque chose de cette histoire en mémoire
même s’il arrive souvent que cette mémoire soit plutôt un obstacle à l’accueil de la foi.
Mais, je l’ai dit, je voudrais ici regarder ce fait de façon positive. Dans notre culture,
circulent une foule de récits qui de manières extrêmement diverses, racontent le Christ
Jésus. Il y a les quatre récits appelés évangiles et tant et tant d’autres jusqu’au récent
livre de Benoît XVI. Mais il y a aussi partout des monuments qui rappellent le Christ et
ce qui s’est constitué à partir de lui : des églises, des monastères, les croix et les
chapelles aux carrefours des routes... Il y a encore la statuaire, les vitraux, la musique,
les films. Les traces de cette histoire sont tellement présentes que l’on se rend compte
aujourd’hui qu’un jeune européen qui ne sait pas les déchiffrer est coupé d’une part
énorme de sa propre culture. En visitant la ville qui accueille ce colloque, vous aurez pu
constater combien son histoire est liée intimement à l’histoire du christianisme et
combien les traces en sont nombreuses alors même qu’elle est désormais une ville
franchement sécularisée. Et tout ceci n’existe pas seulement à l’état de trace d’une
histoire ancienne, la mémoire du Christ et de sa suite ne cesse de susciter des œuvres
auxquelles nos contemporains manifestent beaucoup d’intérêt. Je pense, en français, à

63
des œuvres littéraires comme Oscar et la Dame rose et L’évangile selon Pilate d’E.E.
Schmidt ou au succès de l’essai de Frédéric Lenoir, Le Christ philosophe. Et il y a aussi
ce que l’on raconte de l’Eglise favorablement ou moins, sérieusement ou moins. Cela ne
cesse de susciter au moins la curiosité. Certains de ces récits sont estampillés, d’autres
sentent le souffre, mais ils existent et laissent rarement indifférents alors même que
nous avons l’impression que, par ailleurs, la foi laisse la plupart indifférents. J’ajoute
encore la manière dont fonctionnent les sacrements dans une religion populaire ; cela
s’estompe mais les fêtes, les rites de passages demeurent marqués par le christianisme
et, à ces occasions, beaucoup de gens rencontrent ce que raconte l’Eglise.

Cette mémoire n’est pas une ressource à l’état brut, elle est multiforme et ambigüe et
elle coexiste avec la sécularité et même avec une large indifférence. Le fait qu’elle
subsiste dans le contexte d’aujourd’hui manifeste aussi que désormais la mémoire du
Christ Jésus n’appartient plus seulement aux Eglises officielles qui ont de moins en
moins de contrôle sur ces récits – et cela, les Eglises ont beaucoup de mal à s’y faire. Et
pourtant, il n’y a pas de quoi, selon moi, avoir peur car cette mémoire, pour ambigüe
qu’elle soit, comporte des atouts pour un éveil de la foi.

Une grande partie des traces de cette histoire et même de ce qui se fait aujourd’hui
est d’une large accessibilité au très grand nombre. C’est dans une grande liberté que les
innombrables vacanciers qui visitent les cathédrales découvrent des bribes d’histoire du
christianisme. Personne ne soupçonne là du prosélytisme de la part de l’Eglise. Et
pourtant, ce ne sont pas seulement des pierres qui sont visitées, mais des livres qui
racontent des histoires humaines marquées par la foi.

Le grand intérêt pour ces histoires est pour une part lié à une mémoire plus ou moins
consciente que le Christ, ce n’est pas rien et c’est même plutôt bon même s’il a souvent
été trahi par les siens.

Cette mémoire comporte aussi un scandale devant l’ambigüité des témoins de la foi.
Il y a là des choses fondées et d’autres qui le sont moins, mais cela nous provoque à
nous situer comme d’humbles témoins. Nous sommes témoins et passeurs de la foi
comme héritiers du Christ à travers une lignée de croyants pécheurs. Et c’est bien chez
des pécheurs que Jésus vient réveiller la foi. Vouloir à tout prix tout défendre de
l’histoire du christianisme, comme on l’a fait trop souvent, dessert la transmission de la
foi.

L’intérêt pour cette immense histoire est lié aussi au goût pour le dévoilement de
secrets supposés cachés depuis des siècles. Ce goût est bien exploité commercialement
et il vaut aux chrétiens bien des questions critiques. Cela ne nous pousse-t-il pas à
creuser nous-mêmes et à être sérieusement critiques si je puis dire ? C’est du reste, le
plus souvent indispensable de l’être pour proposer aujourd’hui la foi même à des
enfants.

Considérer les traces de cette histoire comme une ressource pour la transmission de
la foi, suppose que l’on puisse rencontrer des ‘guides’ au moment où la confrontation à
tel ou tel élément de cette histoire suscite une question. La rencontre de Philippe et de
l’eunuque racontée au chapitre huit des Actes des Apôtres est ici exemplaire. L’eunuque
éthiopien lit un chant du Serviteur souffrant chez Isaïe et Philippe l’entendant lui

64
demande : « Comprends-tu vraiment ce que tu lis ? » Et Philippe « partant de ce texte,
lui annonça la bonne nouvelle de Jésus ». Cela suppose d’être attentif à la question
décisive et vitale qui affleure parfois cachée par des questions de curiosité ou même des
questions très critiques. Le guide doit se faire alors, à la manière de Jésus, passeur et
passant ou encore éveilleur. Et s’il est appelé à le devenir à la manière de Jésus, il le
sera aussi à sa propre manière car ici il n’y a pas de recette et il s’agit d’être soi-même
avec sa foi plus ou moins solide.

En guise de conclusion
Je voudrais rassembler et conclure mon propos en revenant à mon premier point.
Ce qu’il y a à transmettre nous dit en même temps comment transmettre. Et c’est
l’Evangile dans sa nouveauté, l’Evangile comme annonce que Dieu offre la vie, sa vie,
la vie éternelle ou encore le Royaume, et ce, sans condition, à tout homme qui s’ouvre à
ce don. Le plus décisif en la période de crise où nous sommes – crise de l’Eglise au sein
d’une crise qui porte sur les fondements de nos sociétés -, c’est de naître et de renaître
franchement à cette nouveauté. Un certain catholicisme, celui qui s’est mis en place
comme Contre-réforme et qui était l’héritier de la chrétienté du Moyen Age, achève de
s’écrouler. Le choc est rude et engendre comme une panne de la transmission. Vatican
II a initié un mouvement de renaissance inséparable d’un profond renouvellement de la
présence au monde de ce temps pour lui transmettre l’Evangile. Ce mouvement doit être
poursuivi et approfondi.

Je termine en citant à ce propos deux auteurs qui parlent librement et nettement à


partir d’une longue expérience et d’une solide réflexion théologique.

Il y a juste dix ans, à un vaste rassemblement qui a marqué en profondeur l’Eglise du


Hainaut, Maurice Bellet évoquait « l’immense reflux du pouvoir chrétien dans la
société, dans la culture et dans l’intelligence. Et l’urgence de retrouver l’initiative
perdue. Le moment historique de Vatican II, poursuivait-il, était la fin de la crispation
de l’Eglise sur elle-même, une ouverture au monde, à la modernité. Peut-être a-t-il
manqué ensuite le second souffle ; d’où la dispersion, l’essoufflement, le vide ; et
devant le péril de décomposition, le retrait, le resserrement. En vérité, il nous faut faire
un pas de plus : non pour être bravement présents au monde (où étions-nous avant ?),
mais dans ce monde, dans son épaisseur, dans ses grandeurs et ses failles, marquer la
rupture évangélique, faire resurgir sa puissance créatrice. »

Je termine tout à fait avec un extrait d’un bref message adressé par Joseph Moingt
aux participants d’une session théologique qui aura lieu au mois d’août. « Le monde où
nous vivons a trop évolué, écrit-il, pour que l’Eglise puisse espérer y remplir sa mission
sans évoluer à son tour : le langage qu'elle parle n'est plus compris, il n'est même plus
écouté. - Comment pourra-t-elle changer ? … C'est en contemplant le visage de Dieu
reflété sur celui de Jésus, dans son enseignement et sa passion, sans avoir besoin de
chercher un nouveau modèle de constitution, qu'elle commencera à changer, d'esprit
d'abord, mais c'est l'essentiel et le reste suivra : qu'elle se convertisse à la vérité du Dieu
incarné, à la faiblesse et à la pauvreté de la Croix, et elle renaîtra à sa propre vérité. »
C’est bien là le cœur de la question difficile de la transmission de la foi et, au fond,
son unique ressource.

65
Transmettre la foi : nos ressources aujourd’hui ?

Stijn Van den Bossche 55

Introduction
Le thème suggéré au Prof. Scolas et à moi-même pour ces deux interventions est le
suivant: « Transmettre la foi : quelles sont nos ressources ? Il s’agit donc de chercher,
non des instruments directement catéchétiques, mais plutôt de rechercher ce qui nous lie
à la source, d’où vient l’eau vive que le Christ nous fait boire. Je pense en effet que,
bien qu’il nous faille de bons instruments catéchétiques, les problèmes de transmission
de notre foi ne sont dans une certaine mesure pas des problèmes proprement
catéchétiques, au moins au sens classique du terme. En France, après vingt ans de
‘proposer la foi’ les évêques ont publié un Texte national pour l’orientation de la
catéchèse, dont je cite: « Le mot « catéchèse » a connu toutes sortes d’évolutions au fil
des siècles, en fonction de la situation de l’Église dans la société, des changements
culturels ou de l’histoire même de l’Église. Parce que le renouvellement de la catéchèse
est en notre pays inséparable d’un renouvellement des communautés chrétiennes, le
présent Texte national insiste particulièrement sur la dimension ecclésiale de l’acte
catéchétique. »56

Les quelques réflexions que je veux partager avec vous traitent de ce renouvellement
des communautés chrétiennes (cf. H. Windisch : nous vivons une situation missionnaire
aussi vers le dedans de l’Eglise, non seulement vers le dehors ; L. Aerts : retrouver notre
propre trésor). J’espère pouvoir indiquer quelques ressources qui nous feront rayonner
le christianisme (vivre la foi qui alors se transmet), peut-être plutôt que de vouloir
l’exporter (‘faire’ la transmission), qui pourraient peut-être au moins rendre curieux nos
contemporains et où nous pouvons ‘faire la différence’ (L. Aerts). Bref, si nous voulons
dire aux gens ‘Venez et voyez’ (Jean 1), qu’est-ce que j’espère qu’ils verraient en
venant? J’ai choisi trois thèmes qui sont liés : 1) regagner l’appel, 2) vivre l’appel dans
le sacerdoce commun des fidèles, 3) le grand signe du mariage (et du célibat).

55
Secrétaire général de la commission interdiocésaine de catéchèse de la conférence épiscopale belge.
56
CONFERENCE DES EVEQUES DE FRANCE, Texte national pour l’orientation de la catéchèse en France et
principes d’organisation, Paris, 2006, 61.

66
Regagner l’appel au coeur même du christianisme57
Le mot le plus important dans les Ecritures
Il y a une histoire juive dans laquelle des rabbins discutent du mot qui dans les
saintes Ecritures doit être considéré le plus important. Je vous épargne le comment ils y
arrivent, mais le mot paraît se trouver au milieu de la Torah, dans le Lévitique, chapitre
1, premier verset, où ils lisent : ‘Le Seigneur appela Moïse’ - le premier mot en hébreu
étant wajiqqra - ‘(et) appela’58. Le mot le plus important de toute la tradition juive est
donc que Dieu nous appelle. Et notez bien : ici, il ne s’agit pas encore de ce à quoi Dieu
nous appelle. Nous pouvons distinguer ces deux points de vues comme l’appel et la
vocation (le contenu de l’appel) - et cela d’ailleurs en plusieurs langues : appello -
vocazione, call - vocation, Anruf - Berufung… Mais le mot le plus important n’est pas
ce que Dieu dit quand il nous appelle, mais d’abord le fait qu’Il nous appelle et entre en
ce sens en relation avec l’humain. L’appel doit d’abord être compris presque comme un
appel téléphonique : « Il y a un appel pour vous, monsieur. - There is a call for you, sir.»
Et ce n’est pas une coïncidence si ‘appeler’ signifie aussi ‘donner un nom’, et par cela
une fois de plus, entrer dans une relation personnelle : « Appelez-moi Stijn svp. - Please
call me Stijn. »

Voilà comment le judaïsme comprend le mot le plus important dans l’Ecriture


sainte : comme l’auto-révélation de Dieu, Dieu nous appelle. Le Tout Autre, Dieu
n’appartient pas à notre monde visible, mais il entre en relation avec nous en parlant,
dans sa parole : de Genèse 1 (Dieu dit … et il en fut ainsi) en passant par l’incarnation
ou ‘le Logos/Verbe qui s’est fait chair’ (Jean 1, 14), jusqu’à l’Eglise comme
communauté des appelés (ek-klèsia de ek-kalein), Dieu est Celui qui nous appelle. Voilà
le sens fondamental de « Le Seigneur appela Moïse ». Le Seigneur nous appela tous
aussi, vous et moi. Notre vie est alors prendre l’appel, répondre à l’appel de Dieu. Le
chrétien essaye d’orienter sa liberté selon ce à quoi Dieu l’appelle, selon une obéissance
donc, Ge-hor-samkeit, au service de Dieu. (Et ceci parfois à la différence de ladite
‘nouvelle religiosité’ dans laquelle on se demande où est l’appel, et dans laquelle Dieu
semble alors pris au service de l’homme.)

Le mot le plus difficile dans notre culture ?


Mais si l’appel est le mot le plus important de l’Ecriture, il est peut-être le mot le
plus difficile dans la culture européenne… L’appel ‘fait la différence’ culturelle. On
peut vouloir nuancer cela immédiatement. Un appel entendu comme une vocation
concrète, un engagement que je prends et au- quel je sens que je veux me dévouer, un
défi sur mon chemin, une vocation que je rencontre pour ainsi dire ‘en aval’ de moi-
même comme sujet qui donne sens, cet appel-là il est reconnu plus ou moins par nos
contemporains. Un philosophe athée de ma ville de Gand dit : « Je dois trouver ce que
je trouve », cela n’est donc pas un subjectivisme cru. Mais l’appel au sens d’être appelé
par quelqu’un d’autre, un appel antérieur à moi, en amont de moi-même et donc où je ne

57
Cf. K. Vellguth, concernant l’importance de l’expérience religieuse qu’aucune réflexion plus objective
ne peut égaler.
58
Sans référence dans E. VANDEN BERGHE, God - geen persoon? Een probleemstelling, dans Collationes
26/2 (1996), 115.

67
suis plus le sujet cartésien qui est soi-même à l’origine de tout sens : cela est
extrêmement difficile à saisir pour nous sujets modernes, et même entre chrétiens
modernes… Est-ce que cela peut vraiment être le cas, que Dieu nous parle et nous invite
comme tout Premier ? Est-ce que tout ne démarre pas avec notre quête de sens, à
laquelle nous trouvons peut-être quelques réponses intéressantes aussi dans la religion -
j’y trouve ce que je trouve? La différence entre ‘ma’ vocation (dont ‘je’ décide) et Dieu
qui m’appelle et me donne sa vocation pour moi, la différence entre ces deux
perspectives tient dans la question : qui tient les rênes ultimement ? Si je me donne une
vocation, la limite arrive où je trouve que je ne trouve plus cela. Si Dieu m’appelle, tout
dépend de ce qu’Il en trouve (j’avoue : cela n’est pas toujours clair non plus …). Le ‘je’
(ego) est mis hors centre radicalement, comme s’il était grammaticalement décliné. Je
‘me’ reçois en même temps que ma vocation, avec l’appel de Dieu. ‘Je’ deviens plutôt
un ‘moi’, un ‘à moi’, un ‘par moi’, et je ne peux plus dès lors me placer comme
antérieur à ma vocation, comme un ‘je’ au nominatif du sujet.59

Or, si ce vrai appel de l’Autre qui me décline est le mot clef de toute la tradition
judéo-chrétienne (wajiqqra), alors cette tradition ne va pas tout à fait ensemble (non
pas : ne va pas du tout ensemble) avec notre culture. Et le dialogue entre christianisme
et modernité consistera alors en partie aussi en ceci que le christianisme offre dans un
geste contre-culturel une alternative sur certains aspects du mode de vie moderne, donc
en corrigeant cette culture. Une conférence au Vatican en 1997 sur le problème des
vocations en Europe parlait un peu sévèrement dans ce sens de l’Europe comme une
culture ‘antivocationelle’ et de ‘l’homme sans vocation’.60

Ressourcement de l’Eglise en reprenant conscience de l’appel et de la vocation


Une des conclusions de ladite conférence était qu’il est peu sensé de travailler pour
des vocations ecclésiastiques si la conscience n’est pas regagnée dans l’Eglise qu’elle
est une communauté d’hommes et de femmes appelés, de personnes qui trouvent la vie
dans l’appel que Dieu leur adresse. N’a-t-on pas oublié un peu l’appel aussi dans notre
Eglise… ? Je cite plus longuement ici Mgr De Kesel, l’évêque auxiliaire du Cardinal
Danneels pour la ville postmoderne de Bruxelles, dans une allocution lors d’une journée
de réflexion sur la crise des vocations :

« Je veux mettre l’attention sur le phénomène ou la mentalité suivante dans l’Eglise :


le crépuscule de ‘vocation’ dans l’expérience religieuse. Dans un contexte
multireligieux le christianisme est vu presque spontanément comme l’une des
conceptions de vie ou convictions religieuses possibles. En soi, il n’y a rien contre cela :
vu de l’extérieur le christianisme est cela. Mais cela devient différent quand les
chrétiens regardent et vivent le christianisme de telle façon. Nous avons intériorisé cette
approche de l’extérieur. Alors, la foi perd son unicité : elle devient conception de vie
entre les autres. [SVdB : où les chrétiens trouvent ce qu’ils trouvent] (…) Plus
concrètement : les notions de révélation et d’élection perdent leur sens. L’Eglise n’est
plus la communauté qui a reçu une vocation tout à fait particulière de Dieu. Et donc non

59
Je réfère généralement à la pensée d’Emmanuel Levinas et surtout Jean-Luc Marion.
60
Texte anglais du document de synthèse In Verbo tuo sur
http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_1302199
8_new-vocations_en.html

68
plus une ‘réalité de la foi’ [SVdB : il ne reste que l’herméneutique d’une tradition de
sagesse]. Elle est une institution religieuse et la question des ‘vocations’ une affaire
fonctionnelle de distribution des tâches. Cela me semble la crise de l’Eglise et des
vocations : que la conscience biblique d’‘élection’ (au vrai sens biblique) ait été perdue.
(…) Je pense que là réside notre impuissance aujourd’hui (…) : de voir que Dieu
m’appelle, personnellement, parce qu’il s’intéresse à moi, et veut partager avec moi vie
et lot, et qu’à travers moi, Il cherche un signe pour annoncer sa présence et son amour
aux gens. De même, qu’il y a un éclipse et un estompage de Dieu, il y a un éclipse et
estompage de vocations. La crise des vocations est la crise de l’Eglise elle-même : ne
plus se savoir ‘appelé et élu’ ».

Cette citation me semble une description adéquate de ce que le théologien de la


pastorale Paul Zulehner (Autriche) a décrit comme l’athéisme ecclésial : on continue de
faire ce que fait l’Eglise depuis toujours, mais sans que Dieu y soit vécu comme
réellement présent. Il ne s’agit donc pas de croire ou ne plus croire en Dieu seulement. Il
s’agit de reconnaître Dieu comme notre compagnon de route, il s’agit de vivre la
relation à Lui. Il s’agit donc de spiritualité, plutôt que de croyance. Et le théologien
allemand Christian Hennecke parle dans le même sens d’une pastorale déiste61 : peut-
être Dieu a-t-il tout déclenché, mais une fois nommé en paroisse, c’est mon affaire
d’avancer, c’est ma responsabilité et mon projet. A cela Hennecke oppose une pastorale
de la présence réelle du Christ, où la paroisse n’appartient pas au pasteur mais au Christ,
une pastorale de discernement continu de la vision de Dieu, qui rejoint cette Eglise
comme réalité de foi dont parle Mgr De Kesel.

Je termine ce point. Au fur et à mesure que la chrétienté culturelle s’efface, nous


redécouvrons le christianisme de l’appel: ‘on ne nait pas chrétien, on le devient’ (dit
Tertullien). A une société individualisée répond une foi personnalisée. Je cite les
évêques de Belgique dans leur déclaration ‘Devenir adulte dans la foi’ : « Parce que la
socialisation religieuse allant de soi s'est rétrécie, l'accent doit être mis sur une foi qui
soit le fruit d’un choix personnel et fondé. L'avenir de l'Eglise dépend des personnes qui
ont découvert Dieu présent dans leur vie, qui ont rencontré le Christ et pour lesquelles
l'Evangile est devenu Parole de Vie. » (n°36). Cela apparaît très clairement chez certains
catéchumènes.

Et à nous qui sommes tout de même des chrétiens de tradition, les évêques de
Belgique lancent l’appel comme un rappel : « Bien sûr, la plupart d'entre nous n'ont pas
connu pareille expérience de conversion. Ce n'est pas ainsi que nous sommes parvenus à
la foi. Nous sommes croyants ‘par tradition’, au sens littéral et positif de ce terme : cela
nous a été ‘transmis’, appris. Mais cet état de fait ne nous empêche pas d'expérimenter
quelque chose de ce qui a été dit ci-dessus. Quelque chose d'une pareille rencontre
personnelle avec Dieu ou d'une semblable expérience de vie avec le Christ doit nous
être arrivé. Sans cela, sans ce noyau mystique du christianisme, nous restons finalement
étrangers à ce qu'il vise de plus profond. » (n° 21)

61
C. HENNECKE, Kirche, die über den Jordan geht. Expeditionen ins Land der Verheißung, Münster,
2008³, 239 pp., passim.

69
Le sacerdoce commun de tous les fidèles
Je passe à la réponse à l’appel. Nous répondons en participant à la réponse de Jésus à
l’appel de son Père. Et cela nous mène au sacerdoce commun de tous les fidèles dans
lequel nous participons au sacerdoce du Christ comme médiateur du Père. C’est dans ce
sacerdoce commun reçu dans le baptême que, dans le Christ unique médiateur, nous
‘médions’ tous Dieu et donc nous le ‘transmettons’ à nos contemporains. En effet, le
sens originaire du mot prêtre est avant tout celui de médiateur du divin. Notre vie doit
être une médiation de l’amour de Dieu, voilà comment nous rayonnons le christianisme.

Les péripéties d’une donnée biblique


Déjà l’Ancien Testament parle clairement de ce sacerdoce du peuple de Dieu, à
différents endroits. Dans le Nouveau Testament, la première lettre de Pierre,
probablement une homélie pour des nouveaux baptisés, dit : « Approchez-vous de lui, la
pierre vivante, rejetée par les hommes, mais choisie, précieuse auprès de Dieu. Vous-
mêmes, comme pierres vivantes, prêtez-vous à l'édification d'un édifice spirituel, pour
un sacerdoce saint, en vue d'offrir des sacrifices spirituels, agréables à Dieu par Jésus-
Christ. » (1 Pe 2, 4-5) Le Cardinal Kasper commente ce texte: “Toute existence
chrétienne est une existence sacerdotale. (…) Ce texte n’a rien à voir – chaque fois à
nouveau considéré à tort - avec une participation quasi-démocratique des laïcs à la
direction de l’Eglise. Il y va de quelque chose de beaucoup plus fondamental que la
participation; il y va d’une confirmation fondamentale sur l’être chrétien et l’être Eglise
de tous »62.

Mais nous nous redressons ici d’une erreur historique de taille. Le sacerdoce
commun a été abandonné plus ou moins, dans le christianisme vécu, quand celui-ci est
devenu religion culturelle. Le théologien orthodoxe Paul Evdokimov écrit là-dessus:
« Les premiers signes inquiétants apparaissent déjà à la fin du 4 ème siècle. Ce sont les
laïcs eux-mêmes qui lâchent leur dignité de prêtres, s’appauvrissent, se vident de leur
substance sacerdotale (…) Une distance, un éloignement par indigence se forme et
témoigne, chez les laïcs, du plus redoutable refus des dons de l’Esprit-Saint. La
« trahison des laïcs » est bien l’abdication, une très étrange aliénation de leur nature
sacerdotale »63. Les laïcs ont vraiment été et sont parfois encore des spectateurs
seulement qui ne se font pas trop de soucis de leur foi et regardent les vrais chrétiens
appelés alors ‘religieux’ ou ‘consacrés’. Durant 1500 ans, on pourrait l’argumenter, le
sacerdoce commun a été plus ou moins oublié dans l’Eglise. Bien que le Pape Jean-Paul
II note dans Christifideles Laici que ce sacerdoce commun « est un aspect qui, certes,
n'a jamais été négligé par la tradition vivante de l'Eglise » (CF n° 13) - nous savons tous
que quand un Pape dit cela, c’est pour avouer que nous l’avons quand même largement
oublié. Dans la chrétienté, l’initiation chrétienne où on apprend spirituellement à ‘être
prêtre’ dans le sens du sacerdoce commun, a été déplacé plutôt dans les noviciats et les
séminaires de préparation au ministère ordonné. Pour le chrétien laïc, un baptême

62
WALTER KARDINAL KASPER, Diener der Freude. Priesterliche Existenz - Priesterlicher Dienst,
Freiburg, 2007, p. 38, notre traduction.
63
P. EVDOKIMOV, Sacrement de l’amour. Le mystère conjugal à la lumière de la tradition orthodoxe,
Paris, 1997 (1945), p. 118-119.

70
dépouillé de toute sa richesse d’initiation et réduit à son essentiel, les actes baptismaux
mêmes, sans même une lecture biblique dans le rite, suffisait! C’est le concile Vatican II
qui a rechangé tout cela, avec un nouveau rite pour le baptême des nouveaux-nés, un
nouveau rite pour les catéchumènes, un plaidoyer pour la catéchèse d’adultes et bien sûr
la redécouverte du rôle des laïcs et du sacerdoce commun de tous les fidèles.

71
Participer au triple ministère du Christ : royal, sacerdotal, prophétique
Il ne faut pas nous étonner alors que ce sacerdoce, après une époque de cléricalisme
tellement longue, n’ait pas été compris tout à fait correctement immédiatement après le
concile. En effet, trop souvent on a pensé que la distinction entre baptême et ordination
n’était plus pertinente, ce dont se plaignait le Cardinal Kasper. Alors les laïcs engagés
devraient devenir des semi-prêtres, des semi-curés, et oui, aussi des semi-célibataires
parfois à cause de toutes les réunions du soir. Jusque récemment nos formations pour les
laïcs étaient des formations pour ceux qui assumeraient une tâche pastorale, non pas des
catéchèses d’adultes.

Mais le sacerdoce commun n’est pas cela. Il n’est pas un ministère pastoral, il est une
participation au triple ministère du Christ comme médiateur. Je suis ici l’exposé
spirituel du même théologien orthodoxe laïc Paul Evdokimov.64 Il développe les trois
« dignités » du sacerdoce commun en commençant, de façon surprenante, avec la
dignité royale sous laquelle nous logeons d’habitude surtout la diaconie. Mais pour
Evdokimov, la dimension royale, c’est « la maîtrise ascétique, la libération de toute
détermination par le monde, par les multiples formes de concupiscence, par toutes les
puissances démoniaques ». Il cite Saint Grégoire de Nysse : « L’âme montre sa royauté
dans la libre disposition de ses désirs ; cela n’est inhérent qu’au roi ; tout dominer est le
propre de la nature royale ». (cf. A. Fossion sur être maître de soi-même et de ses désirs
comme condition pour une annonce authentique).

Evdokimov continue : « Mais toute liberté de est à la fois pour. Si la liberté est le
« comment » de l’homme et de son existence, elle invite à passer au « quoi » de sa vie, à
son contenu positif, et nous amène à la dignité sacerdotale. » Cette dignité, Evdokimov
la comprend comme don de soi-même. Il cite parmi d’autres un manuscrit anonyme du
6ème siècle : « Nous sommes rois par la maîtrise des passions, et prêtres par l’offrande de
nous-mêmes en hosties spirituelles ». Le fidèle qui vit ce sacerdoce royal continue à
célébrer la liturgie hors les murs de l’église, par sa vie de tous les jours. « Sa présence
dans le monde est comme une épiclèse perpétuée, invocation de l’Esprit-Saint sur le
jour qui vient, sur le travail et les fruits de la terre, sur l’effort de tout savant dont le
regard est purifié par la prière. Les cœurs purs verront Dieu, et par eux Dieu se fera
voir ». Et c’est ici que nous arrivons à la dignité prophétique. Pour Evdokimov, « un
prophète est celui qui est sensible au « dessein de Dieu » dans le monde, celui qui
déchiffre et annonce la volonté de Dieu, la marche implacable de sa grâce. (…) Voilà la
dignité prophétique : être celui qui, par sa vie, par ce qui est déjà en lui présent, annonce
Celui qui vient ».

Je veux surtout mettre votre attention sur l’ordre que suit Evdokimov. Nous avons
l’habitude de placer en tête le prophétique, l’annonce. En fait, cela convient surtout dans
une perspective de l’action pastorale: l’évêque est ordonné d’abord pour proclamer la
Parole. Puis suit la liturgie source et sommet, et elle est vécue dans la diaconie. Mais
tous les laïcs doivent-ils se lancer dans la proclamation explicite ? Or, un Père jésuite
m’a une fois confié ceci : ‘Les vrais saints dans la compagnie de Jésus, s’il y en a, sont
les vieux frères. Car les vieux Pères ont dû en parler tout le temps.’

64
Toutes les citations qui suivent viennent de P. Evdokimov, o.c., p. 119-126.

72
Et si le sacerdoce commun non pas des pasteurs mais de tous les fidèles commençait
donc avec la dignité royale comme la conversion à la sainteté ? (cf. sœur Goffoël : le
jihad, c’est d’abord l’effort pour mieux se comporter comme musulman) Dans une
perspective de vivre en chrétien (non pas de l’action pastorale), de ‘médier’ dans la vie
courante, l’ordre d’Evdokimov m’interpelle particulièrement : d’abord la maîtrise de
soi-même et de tout pour devenir libre royalement (il y a du travail sur ce plan dans
notre culture qui n’aime pas trop la maîtrise…), puis se donner à Dieu, dans la liturgie
et dans l’offrande de notre vie. Et devenir des prophètes théophanes de cette façon pour
nos contemporains : rayonner le christianisme.

Je termine. On ne peut pas compter sur les ordonnés et les consacrés seulement pour
le futur, comme on l’a fait trop par le passé. Le Pape Benoît XVI l’a signalé encore
récemment : nous pensons toujours beaucoup trop l’Eglise à partir des ministres
ordonnés. Nous avons par contre besoin que tous les chrétiens, aussi les laïcs, vivent
l’appel, se laissent guider là où Dieu veut les mener, donnent le volant de leur vie à
Dieu, fassent de leur vie une réponse à l’appel. A la fin du 19ème siècle, le Cardinal
Newman a lancé deux grands défis pour l’Eglise qui sont toujours actuels : l’Eglise doit
prendre au sérieux les laïcs, et les laïcs doivent prendre au sérieux la prière - leur
relation à Dieu, leur vocation. Voilà le sacerdoce commun qui n’aboutit pas
nécessairement à l’engagement pastoral, mais toujours à l’apostolat, dont aucun baptisé
ne peut être dispensé. Je crois que petit à petit nous sommes en chemin.

Le mariage
Le signe le plus important dans les Ecritures
Troisièmement: le grand signe du mariage. Le mariage et le célibat comme une
forme spéciale du mariage sont les deux formes de base du don de soi en réponse au
baptême où Dieu se donne à nous. Saint Thomas d’Aquin, qui n’était tout de même pas
le plus grand défendeur du mariage, l’a quand-même appelé le plus haut signe de Dieu !
Plus récemment, le spécialiste du mariage Xavier Lacroix termine l’introduction d’un de
ses livres par cette phrase impossible mais très riche : « A l’issue de ces travaux, nous
avons conscience de n’avoir nullement épuisé le sujet [du mariage], dont le signataire
des présentes lignes affirme et reconnaît qu’il est, et de loin, le plus difficile, le plus
étrange et le plus insaisissable de tous ceux qu’il a explorés, mais aussi celui où se
rencontre la plus grande densité de sens, de portée divino-humaine, accompagnée de
tous les paradoxes qui tiennent à la plus grande incarnation de ce qui est à la fine pointe
de la révélation chrétienne, le mystère de l’être lié65 ».

Pour vous élever en vitesse à la hauteur biblique du mariage, à laquelle nous ne


sommes pas tellement familiers en tant que catholiques, je vous fais part de deux
anecdotes provenant du judaïsme. Il y a quelques années, je voyais à la télévision un
documentaire sur les hassidim, qui adhèrent à l’interprétation la plus stricte du
judaïsme. Dans cette émission une femme hassidique disait ceci : ‘Le mariage est une
institution plus sainte que la Torah.’ Il faut mesurer le poids des paroles ici : le mariage
est plus saint, plus proche du tout Autre, une plus haute révélation et annonce, que la

65
X. LACROIX, Oser dire le mariage indissoluble, Paris, 2001, p. 10-11.

73
Torah. Et cela de la bouche d’une hassidique. Je sautais de mon fauteuil et je voulais
embrasser cette femme, mais hélas cela est strictement défendu dans le hassidisme.

Et une deuxième anecdote concerne Job, le juste. Eprouvé par le Satan, Job perd tout.
Et si je dis tout, c’est tout : ses chameaux et ses esclaves, mais il perd même ses enfants
qui meurent tous, ce qui est extrêmement choquant pour nos oreilles éthiques
contemporaines. Mais savez-vous qui Job ne perd pas ? Son épouse. A elle, et à elle
seule, Satan ne peut pas toucher apparemment. (Et seuls des catholiques cyniques ont
considéré cela comme faisant partie de l’épreuve…) Dans la tradition juive, il paraît
qu’une petite bibliothèque a été écrite là-dessus. Dieu ne laisse pas aller Satan à
l’encontre de son alliance dans laquelle Dieu s’est donné soi-même et donc ne se retire
pas. Le mariage n’est pas comme une alliance, il est la vraie alliance même dans la
création, qui est pour cela l’icône de l’alliance entre Dieu et son épouse, son peuple. Le
mariage comme don mutuel de soi total et union des époux (Gen 2), rend présent
l’Amour et achève la création comme transparent à Dieu au paradis (Gen 1). En effet,
les deux récits bibliques de la création sont tous les deux écrits en ayant pour climax le
mariage!

L’essence du mariage réside en ce don de soi total où on devient ‘de l’autre’: dans la
fidélité et l’exclusivité d’une part (je me donne totalement à elle, donc je n’ai plus rien à
donner à une autre femme), et dans l’indissolubilité de l’autre part (ce que j’ai vraiment
donné, je ne peux pas le reprendre). Dans ce sens toute une alliance, toute une bible, est
révélée dans le mariage. Si vous pensez que j’exagère, écoutez le Pape Benoît XVI dans
Deus est Caritas: « À l’image du Dieu du monothéisme, correspond le mariage
monogamique. Le mariage fondé sur un amour exclusif et définitif devient l’icône de la
relation de Dieu avec son peuple et réciproquement: la façon dont Dieu aime devient la
mesure de l’amour humain. Ce lien étroit entre eros et mariage dans la Bible ne trouve
pratiquement pas de parallèle en dehors de la littérature biblique (DC11) ».

Le signe le plus difficile dans notre culture ?


Hélas, comme l’appel de l’autre était le mot le plus important de la bible mais le mot
le plus difficile dans notre culture, le mariage est le signe de Dieu le plus important,
mais peut-être aussi le plus difficile dans notre culture. Aussi le mariage ‘fait la
différence’ dans notre culture ! Notre culture ne comprend vraiment plus très bien le
mariage. Paraphrasant Mgr De Kesel je dirais : comme il y a une éclipse et un
estompage de Dieu et de l’appel, il y a aussi une éclipse du mariage. Les philosophes de
l’autonomie ont réfléchi sur le mariage, mais n’en veulent pas trop. Je cite pour
illustration seulement le plus radical d’entre eux, Friedrich Nietzsche : « Par suite, le
philosophe a horreur du mariage et de tout ce qui pourrait l'y conduire, — du mariage en
tant qu'obstacle fatal sur sa route vers l'optimum. Parmi les grands philosophes, lequel
était marié ? Héraclite, Platon, Descartes, Spinoza, Leibniz, Kant, Schopenhauer — ils
ne l'étaient point ; bien plus, on ne pourrait même se les imaginer mariés. Un philosophe
marié a sa place dans la comédie, telle est ma thèse : et Socrate, seule exception, le
malicieux Socrate, s'est, semble-t-il, marié par ironie, précisément pour démontrer la
vérité de cette thèse”66.

66
F. NIETZSCHE, Généalogie de la morale, Troisième dissertation, nr. 7.

74
Et les évêques Belges confirment hélas la difficulté de comprendre le mariage dans
notre culture moderne - et même dans notre Eglise parfois trop modernisée - dans une
lettre pastorale de 2007 intitulée ‘Ne savez-vous donc pas interpréter les signes du
temps’. Je cite :
« 22. (…) Mais il demeure un domaine où l'enseignement de l'Eglise reste bien isolé: la
sexualité et le mariage. Ici, sa voix s'élève, solitaire, au milieu du chœur. Prophétesse
solitaire qui s'époumone en vain. Son enseignement apparaît comme dépassé ou tout
simplement utopique. Dans le sillage d'Elie, elle peut dire: ‘Je suis resté le seul prophète
du Seigneur …’ (1 R 18,22).
23. (…) L’impression de distance serait-elle due à l'Eglise elle-même? Ou est-ce
justement ici que l'être humain serait le plus profondément blessé? Et, comme certains
malades, commencerait-il par refuser le médicament qui le sauverait? A l'intérieur
même de l'Eglise, il existe bien des divergences à ce propos.
24. L'Eglise ne peut jamais oublier la bonne nouvelle sur l'homme et la femme, qui
s'offre à lire dès la première page de la Bible. Elle continue à caresser ce rêve qui est, en
fait, celui de Dieu: ‘Dieu créa l'homme à son image, à l'image de Dieu il le créa ; mâle
et femelle il les créa’ (Gn 1,27). C'est précisément en tant qu'homme et femme que l'être
humain est l'icône terrestre de Dieu. Celui qui considère l'être humain tout à la fois dans
son unité et dans sa dualité, celui-là contemple, comme dans un miroir, ce qu'est et ce
que réalise Dieu lui-même: unité et amour. (…) Au sein de la Trinité règnent l'égalité,
l'unité et la différence, la réciprocité et un amour fécond qui se répand et se donne: c'est
ce qu'à leur manière vivent l'homme et la femme.
25. Ce que dit l'anthropologie biblique au sujet de l'homme et de la femme est peut-être
le message le plus précieux que l'Eglise puisse offrir au monde, en ces temps troublés,
prodigues en amours blessés et en chemins sans issue. »

Le mariage comme ressource


Comment le mariage peut-il être ressource pour la transmission de la foi? Je propose
seulement quelques réflexions trop brèves qu’il faudrait élaborer.

Parlant de rendre curieux notre culture: lors de l’an 2000 un ‘trendwatcher’ signalait
dans un hebdomadaire belge que ce qui rendrait jaloux nos contemporains en l’an 2025,
c’est quelqu’un(e) de marié(e) en 2000 qui rentre encore toujours chez le même époux
ou la même épouse, et après 25 ans est toujours heureux/se avec elle/lui. Dans le sillage
de cette réflexion, la fidélité et la possibilité de relations stables et durables dont le
mariage est le point de calibration, tout cela est un signe remarquable dans notre société.

« Le Cardinal Danneels s’adressant à un groupe des Equipes Notre Dame pouvait


désigner le mariage chrétien comme signe privilégié de la crédibilité de l’Eglise en ce
temps présent. Après la vie monastique, aux premiers siècles de l’Eglise ou à côté de
l’activité charitable des ordres médiévaux, par exemple, qui portèrent en leur temps le
signe de la singularité et de la nouveauté chrétienne, il y aurait aujourd’hui, suggérait-il,
une fonction privilégiée - même si elle n’est pas exclusive - de la vie conjugale vécue

75
‘dans le Seigneur’, selon l’expression des premiers siècles de l’Eglise, c'est-à-dire
assortie du sens et des exigences que lui associe la foi chrétienne »67.

Le mariage est la meilleure façon de connaître le christianisme sans être chrétien. Le


mariage et le pardon sont les deux signes visibles de « l’amour excessif » (cf. A.
Fossion) dont témoigne le christianisme. Ce qui fait dire à Charles Bonnet, qu’aux
fiancés même peu ou mal croyants qui se présentent à l’Église pour se marier, il ne faut
pas demander en premier lieu « Croyez-vous en Jésus-Christ ? » mais « Quel mariage
avez-vous envie de faire ? »68 Dites-moi quel mariage vous voulez, et je vous dirai si
vous êtes chrétien - ou en chemin au moins. Le mariage est le meilleur ‘produit
d’exportation’ du christianisme, mais il est aussi le meilleur pont entre le chrétien et
l’humain, intelligible aussi hors la foi. Pour cette raison aussi le mariage fera base de
conception de vie commune dans maints couples avec un partenaire chrétien seulement
au futur.
Bref : consacrons beaucoup plus de temps à la catéchèse du mariage dans l’Eglise en
général, pour mieux comprendre notre foi chrétienne dans son essence.

Mais je ne veux pas terminer cette section non plus sans préciser que tout l’hymne
que je viens de chanter pour le mariage ne diminue en rien le problème pastoral énorme
des personnes qui expérimentent des difficultés dans leur mariage. Le plus grand signe
du mystère de Dieu cause le plus grand problème pastoral pour l’Eglise, quand il est
blessé. C’était le cas déjà pour St Augustin, appelé le docteur du mariage, qui avoue ne
pas avoir trouvé la solution parfaite pour ce problème. Et il y a quelques jours encore le
Cardinal Martini a répété que ceci est le premier problème pastoral à entamer dans
l’Eglise et qu’il nous faut trouver des chemins d’amour à ce problème69. Cela ne fait que
confirmer l’importance du mariage comme ressource pour la transmission de la foi
demain.

Finalement : en fait je devrais insérer maintenant une section sur le célibat. Je n’en
aurai pas le temps, mais je veux confirmer comme laïc marié que je pense qu’il nous
faut aussi redécouvrir le charisme du célibat. Il se reflète dans le mariage, à partir
duquel il peut seulement être compris. Dans le célibat – qu’il soit choisi ou non,
provisoirement ou définitivement, mais tant qu’il est vécu chrétiennement – il s’agit
exactement du même don de soi que dans le mariage, mais de façon eschatologique,
céleste, d’où vient célibat.

Voilà trois ressources possibles que je voulais soumettre à votre attention, qu’il ne
s’agit pas de connaître seulement, mais surtout de vivre : vivre l’appel, le sacerdoce
commun, le mariage et le célibat.

67
A.-M. PELLETIER, Le mariage, une vocation ? dans L.-M. CHAUVET (réd.), Le sacrement de mariage
entre hier et demain, Paris, 2003, p. 222-223.
68
Dans CHAUVET, o.c., p. 218.
69
Rapporté dans la revue Tertio, 1 juillet 2009.

76
De la croyance à la foi.
Pour une Église en voie de dépouillement

Alphonse Borras70

Au terme de ce colloque, je me propose de souligner quelques conclusions


« personnelles ». Elles ne prétendent pas ‹‹ clôturer ›› la réflexion, mais tout simplement
« désigner ›› ce que je considère pour ma part comme des acquis.

Il est évident que la foi est un trésor pour utiliser cette métaphore qui suggère par
elle-même que nous avons affaire à quelque chose qui est précieux, qui a du prix, à
l’instar de la perle dans l’Évangile pour dire que la découverte émerveillée du Royaume
vaut bien plus que tout ce que l’on possédait auparavant. Dés lors qu’on en a fait la
découverte, la foi est l’attitude qui détermine et qualifie notre existence. En ce sens, a
posteriori, elle s’avère radicalement nécessaire. Nous ne pouvons plus concevoir de
vivre sans croire… en Dieu qui, par le Christ, nous a parlé au cœur de notre condition
humaine et qui nous habite par son Esprit saint.

La réflexion contemporaine sur l’être humain – l’anthropologie, en particulier sous


l’angle de la psychologie, tout spécialement d’inspiration freudienne – nous conduit à
distinguer entre la croyance et la foi. La première est de l’ordre du besoin : j’ai besoin
de croire pour de multiples raisons, diverses et même ambiguës. Face à l’angoisse
fondamentale qui le saisit dès sa venue au monde, aucun être humain ne peut pas ne pas
croire : il a, reçoit et se donne, individuellement et par la culture ambiante, des
« croyances ». Il a besoin de croire au moins pour se rassurer, baliser son existence,
orienter son agir. Ces croyances sont des représentations de soi, une vision du monde,
des valeurs, une image de la divinité, des rêves et des idéaux, etc. qui le font bouger.
Tout cela est de l’ordre du besoin. Et dès lors de l’utilité. Même un agnostique a des
croyances, en l’occurrence la croyance qu’il peut vivre sans la divinité.

La foi – et singulièrement la foi chrétienne – est de l’ordre du désir. Elle est la


découverte que je suis précédé et entouré par l’autre : elle est la découverte que ce que
je suis et ce que je deviens ne peut s’accomplir sans l’autre.

La foi conduit à reconnaître que je ne suis pas sans l’autre. Bien plus que c’est
l’autre – autrui et le Tout-Autre – qui me constitue parce qu’il m’ouvre à moi et me
permet de découvrir en moi de l’insoupçonné, et même de l’impénétrable. Grâce à
l’autre qui me constitue, je suis quelqu’un aux yeux de moi-même. Et l’autre n’est pas
sous ma maîtrise, ni mon emprise comme l’objet des croyances dont j’ai besoin. L’autre

70
Professeur à la Faculté de théologie de l’UCL et vicaire général du diocèse de Liège (Belgique).

77
est, comme moi, insaisissable et pourtant éminemment désiré. Je ne suis pas sans lui.
Les croyances sont à consommer, à utiliser ; elles sont utiles et nécessaires. La foi en
l’autre est à recevoir, à accueillir ; elle est belle parce qu’elle m’ouvre à
l’émerveillement, sans jamais me combler ; elle est bonne parce qu’elle m’engage au
don en réponse à l’autre dans une réciprocité gracieuse, imméritée ; elle est vraie parce
qu’elle m’invite à espérer, comme on dit qu’une relation est vraie quand elle ne déçoit
pas.

Ce n’est pas ici le lieu de l’expliquer, mais cette foi de l’ordre du désir est l’indice
d’une humanité accomplie – sans jamais être parachevée, c’est-à-dire parfaite. Cette foi
est intimement liée à l’amour et à la charité, à l’éros et à l’agapé. Puisque l’amour est
d’abord sinon tout autant l’expérience d’être aimé, la foi comme l’amour est intimement
liée à l’espérance. La foi, chrétienne en particulier, se traduit en une posture diaconale –
il y va de sa vérité – et un style de vie où l’espérance nous construit en raison d’une
Parole, d’une promesse qui annonce pour soi, pour autrui, pour tout être humain sans
exception et sans exclusive, pour toute l’humanité « un ciel nouveau et une terre
nouvelle » (Ap 21).

La foi est de l’ordre du désir. Pour croire il nous faut être pauvre : si nous sommes
pleins de nous-mêmes et si nous avons satisfait tous nos besoins, nous n’avons ni la
liberté d’aimer et d’être aimé, ni l’ouverture indispensable pour que l’autre vienne nous
révéler à nous-mêmes. Je rappelle volontiers le constat entendu durant le colloque : « on
n’en fait pas assez, mais on en a plus qu’assez ! ». Il y a lieu de se demander si cette
frénésie, à l’instar de l’activisme de nos contemporains hypermodernes, ne cache pas
maladroitement une angoisse d’exister et d’être reconnu. Ne dissimule-t-elle un besoin
de toute-puissance, voire d’omniprésence pastorale et apostolique… ? J’en viens par là
au thème du dépouillement évoqué par Paul Scolas. Nous sommes dans une Église en
voie de dépouillement : je suis convaincu que nous avons à assumer librement et
joyeusement cette pauvreté. La plupart des « ressources » évoquées par Paul Scolas et
Stijn Van den Bossche requièrent de près ou de loin d’être « pauvre » de l’autre,
mendiant de Dieu. Elles nous ramènent au désir, à la grâce imméritée d’être aimé ; elles
nous incitent à accueillir la vie comme un don et nous conduisent à reconnaître que
notre existence autant que l’histoire humaine ont été « justifiées » par la venue de Dieu,
son désir de nous rencontrer et d’établir une alliance.

La vocation nous inscrit dans une relation où, par grâce, nous sommes invités à vivre
pas sans l’autre – autrui ou le Tout-Autre. L’Église se reconnaît non comme un but en
soi, mais pas sans le Royaume. Le Christ, Parole de Dieu assumant notre humanité, ne
se donne pas sans nous avec qui il a voulu prendre corps. Le mariage, icône de
l’alliance, dit bien le mystère de la vie entre un homme et une femme pas sans l’autre,
reliés par un désir réciproque dès lors qu’il s’agit de se donner et de se recevoir.
L’Évangile comme Bonne Nouvelle n’est pas sans sa communication, sa transmission
et singulièrement la traditio du témoin qui, à l’instar de son Maître et Seigneur, est
appelé à livrer sa vie. Son existence est, en ce sens, éminemment sacerdotale.

Dans cette perspective, l’irruption de l’Évangile dans l’histoire comme dans nos vies
nous invite à des ruptures, à des décisions et à des conversions où se jouent toujours la
dignité de l’être humain et l’honneur de Dieu.

78

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